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Ciclismo e lotta di classe

20 Agosto 2015

Si usa dire che il problema della mobilità italiana è di natura culturale. Ammessa – con una certa generosità – l’accezione di “cultura” in senso antropologico, facendo cioè riferimento agli usi e costumi di una data società e al relativo sistema di valori, questa affermazione si può certamente definire vera, ma riduttiva: il problema culturale dell’ottica autocentrica di chi ha pensato, progettato e regolato la mobilità odierna – che tra l’altro è una stratificazione grottesca di una serie di giunte e interventi senza una progettualità durativa nel tempo, in cui il C.d.S. presenta zone d’ombra imbarazzanti – ha una natura riconducibile alla lotta di classe: a differenza di alcuni Paesi dell’Europa Centrale e Settentrionale, dove andare in bici non è da matti, sognatori, fricchettoni e/o poveracci, le logiche di chi si lamenta dell’intralcio dei ciclisti seguono un ragionamento classista.
LavoroPagoPretendo.
Un residuo viziato di una mentalità nata nel falso benessere del Dopoguerra, quando la bici era il mezzo di trasporto naturale per chi non poteva permettersi un’auto, meccanica applicata all’olio di gomito. Oggi, in un mondo saturo di lamiere e smog in cui la bici è stata riscoperta come mezzo di spostamento dopo anni in cui era stata relegata allo sport o al divertimento – non importa se per necessità o per moda – quel residuo è ancora instaurato nella mentalità dell’italiano medio.
La strada è uno dei pochi territori di confronto obbligati per le varie classi sociali, sulla stessa polvere si spostano nobili e plebei, eppure l’assunto di base pare recitare: ora che ho pagato per questo attrezzo, la velocità mi spetta. Al cospetto di tale assunto, bestiale e impulsivo come lo è la legge della giungla, crolla qualsiasi sovrastruttura democratica ed egualitaria.
Il denaro sborsato per l’acquisto di un’automobile, per le tasse di circolazione, per assicurazione, benzina e manutenzione paiono legittimare una serie di pesi che ricadono inevitabilmente sulla comunità: l’ingombro di spazio, l’inquinamento atmosferico e quello acustico, lo stress. L’errore di fondo di questo ragionamento sta nel considerare privati dei beni pubblici e inalienabili: privati, dunque acquistabili. Di fatto l’aria, lo spazio, la serenità non sono ancora stati privatizzati, ma questo non sembra essere previsto nella mentalità di chi suona il clackson chiedendo strada perché non può rallentare e aspettare di sorpassare qualche centinaio di metri più avanti. E non può rallentare perché ciò per cui ha pagato nel suo (in)conscio ha il diritto di correre, appartiene a una classe sociale superiore.
In virtù di quello stesso ragionamento secondo cui la linguistica del giornalismo piega l’oggettività dei fenomeni fisici, e riesce ad animare dossi e alberi dipingendoli come pericolosi assassini. Basta fare un po’ d’analisi logica dei titoli usati in occasione dell’incidente mortale dello scorso 30 agosto sulla Colombo: il Corriere della Sera titola “Esce a provare la nuova Porsche, poi lo schianto sulla Colombo: Salini forse tradito da un dosso“, per parlare apertamente di “strada killer”; verbi al passivo che lasciano al soggetto il ruolo di chi subisce un’azione, oggetti inanimati come dossi, strade e alberi diventano complementi di agente o causa efficiente. Repubblica si sbilancia con una timida affermazione resa ancor più grottesca dalle foto del mezzo accartocciato: “A procedere ai rilievi è stato il Gruppo Eur della polizia locale che non esclude, tra le possibili cause dell’incidente, l’elevata velocità del mezzo, mentre sono al vaglio degli inquirenti le condizioni del manto stradale.” La Stampa gli fa eco con parole simili: “L’ipotesi è che l’auto procedesse a velocità elevata. Sono al vaglio le condizioni del manto stradale per verificare se ci sia qualche piccolo avvallamento che possa aver fatto perdere aderenza alle ruote, anche se al momento non sembrerebbero emergere anomalie particolari.”
Ma va?
La Porsche diventa un bolide “nuovo fiammante”, quindi “da provare”, come fosse una legittima necessità. Quella stessa via Cristoforo Colombo sulla quale hanno lasciato le penne tanti ciclisti, la pista di prova.
L’avvallamento della strada, l’assassino da processare. Chissà se si parlerà allo stesso modo degli avvallamenti di quella Salerno-Reggio Calabria in costruzione da anni dal gruppo Salini-Impregilo, del quale la vittima (?) era a capo. O delle relative morti bianche.