L’Acropoli, il crepuscolo degli dei e il ritorno in aereo: del perché un ritorno è una nuova partenza [parte 1]
L’ansia da trasporto in aereo unita alla desolazione di ferragosto si può finalmente placare: abbiamo in albergo una scorta sufficiente di cartoni, dello scotch e molta volontà, e anche dopo il check out delle stanze in tarda mattinata ci permettono di lasciare bici e bagagli nel cortile interno. Dopo 1437 km di nomadismo e polvere sul sellino, il giorno di Ferragosto scegliamo di passarlo lontani dalle nostre cavalcature, camminando come dei turisti qualsiasi – già mi manca quello status speciale di viandante che si sente autorizzato a molestare qualsiasi autoctono con la propria storia non richiesta di noi che veniamo in bici da Roma, “Ehi, veniamo da Roma in bici, sì, proprio così, guardaci, non è incredibile, eh?” – niente da fare, siamo tornati uguali alla massa.
Per l’ultima volta in questo viaggio scompongo e ricompongo il mio bagaglio: due borse laterali Ortlieb, un borsello da manubrio, il materassino e il casco legati sul portapacchi. In fondo alle Ortlieb c’è la storia del viaggio, raccontata per odori: ci trovo l’aroma dell’olio delle olive di Mondragone e l’olio per lubrificare la catena, la sabbia di Taranto e il sale di Etholiko, le briciole di un qualche rustico comprato chissà dove in terra greca e degli scontrini di un bar di Tebe; ah, in una bustina malamente accartocciata ci sono dei souvenir da Delfi, sacrificio agli dèi che ci ha assicurato l’arrivoqui ad Atene. Meno male che ho diviso i ruoli delle due borse, in una ci sono attrezzi e il folklore, nell’altra i panni ripiegati – anche loro divisi tra buoni e cattivi con buste di plastica, che si incontrano dopo essere stati separati per centinaia di chilometri.
Dopo una pessima colazione, con Fiorella e sua sorella Marika ci concediamo una passeggiata nei vicoletti di Psirri, dove localetti alla moda e case diroccate si fondono in un’armonia di contrasti tipicamente mediterranea.
Nei portici squadrati, negozi halal e giovani maghrebini; nelle piccole piazze nascoste risuona un bouzouki col suo Zorba, offrendo al turista quell’Atene più facile da immaginare e catalogare; sui muri spogli, vicino alle vetrine arrugginite o alle scritte “vendesi”, urla silenziosa la dignità e la rabbia del popolo greco – ma sono solo graffiti da fotografare e inserire in qualche album più pittoresco degli altri.
Proseguiamo per le vie del mercato: veli e tappeti svolazzanti nella via sempre più angusta, profumo di frutta spremuta e d’incenso. Tangeri e Palermo, est e ovest, tutto insieme.
E poi, Monastiraki: nella piazza caratterizzata dalla piccola chiesa ortodossa, una fiumana di varietà umane, questo è forse l’unico luogo di Atene affollato dopo l’esodo estivo. Sacerdoti e pope nelle lunghe vesti nere in contrasto col bianco leggero delle vesti di turiste nordiche.
Poi, la scalata all’Acropoli: saliamo nel giallo assolato del marmo pentelico, per ammirare quel che resta della democrazia perfetta, per rendere un ipocrita omaggio alle vestigia della nostra cultura; per vedere col sole la simmetria armonica dei canoni classici.
Il Propileo ci accoglie col suo abbraccio di colonne doriche. Affannati sorveglianti armati di fischietto impediscono ai turisti di toccarle.
Defilato in un angolo, il tempio di Atena Promachos: piccolo, perfetto, pare quasi non voler reclamare attenzioni dopo essere stato smontato, restaurato e rimontato pezzo per pezzo.
Ma è il tempio di Atena Parthenos lo sfondo favorito per migliaia di selfie e foto di gruppo chieste al primo avventore gentile e disponibile: decadente e magnifico, dà il ritmo a un tempo che non c’è più, scandendolo con i suoi pilastri immani. E l’Occidente ammutolisce, come se fosse la sua cattiva coscienza.
Più in basso tra i vicoli, un murales recitava “Berlin is the new Athens”. Mi torna in mente ora che contemplo queste rovine, le immagino fiorenti e piene di vita, poi solitarie e tetre nella peste e tra le invasioni persiane; poi le immagino scalfite dalle cannonate veneziane e ancora riadattate a moschea e harem nei suoi quattrocento anni turchi. E ora restaurate e dotate di nuovo prestigio, magari da qualche zelante istituto archeologico teutonico.
E non basteranno cinque cariatidi a sostenere il peso della Storia, se la sesta è stata trafugata dagli inglesi e ora bisogna andare al British Museum per ammirarla.
Una città di una bellezza disperata.
L’Eretteo: questo tempio a fianco del Partenone è il più importante edificio di culto dell’Acropoli. Infatti, secondo la tradizione, proprio qui ebbe luogo la mitologica contesa tra Atena e Poseidone per il possesso della città.
Il dio del mare piantò il suo tridente nel suolo, offrendo agli ateniesi un pozzo d’acqua marina; la dea scelse un dono più gentile, l’olivo. La disputa fu sciolta ancora una volta per votazione da un tribunale divino, con Cecrope come testimone, e a maggioranza il dono di Atena fu reputato il migliore. Poseidone non la prese bene, e mandò un’alluvione sulla città: da allora, per placare la sua ira, le donne ateniesi rinunciarono al diritto di voto, e gli uomini smisero di prendere il nome della madre, come era stata consuetudine fino ad allora.
Mentre torniamo giù, nella fiumana di turisti ci appare una visione: una canottiera gialla, ancora sgargiante nonostante i numerosi e superficiali lavaggi, risale oscillando tra gli ulivi. La conosciamo, quella canottiera.
Ora il giallo livido si fa strada nella luce bianca del pomeriggio d’agosto, guardandosi qua e là con nonchalanche.
Massimo ci saluta tra la folla di turisti, come se incontrarsi nel luogo più turistico e frequentato da un migliaio di chilometri a questa parte fosse un fatto del tutto usuale. Ci racconta di deviazioni per il mare, di cani randagi e di salite inaspettate, nonché di incontri che solo la Strada sa dispensare.