L’Acropoli, il crepuscolo degli dei e il ritorno in aereo: del perché un ritorno è una nuova partenza [parte 2]
Le ultime peregrinazioni di questo Ferragosto le riserviamo ai vicoli e ai grandi viali deserti, alle feste pakistane e alle scritte sui muri, a un paio di birre all’imbrunire mentre le ore che ci separano dall’ultima corsa metro per l’aeroporto scivolano inesorabili.
Fiorella e Marika si trattengono un paio di giorni in più, e ci danno una mano col trasporto delle bici e dei cartoni per fare gli imballaggi in aeroporto.
La sera ateniese ci vede sfilare carichi come bestie da soma, una pila di pacchi dotata di vita autonoma che si districa tra gli sguardi infastiditi dei pochi avventori sul treno per Venizelos. Finalmente, la sala del terminal: nessuno.
Il pavimento lucido riflette le sagome delle bici e lo sporco dei nostri bagagli. Un jingle irritante viene diffuso a intervalli irregolari.
Il primo quadro del perverso videogioco notturno è completato, Agnese si lascia andare sulla panchina con una risata isterica, io mi siedo su un carrello per il trasporto bagagli, Laura mi spinge come fossi il Papa. Agnese prende la bici, e comincia a disegnare pedalando dei cerchi sui riflessi del pavimento, passa un ragazzo coi suoi bagagli, ci ignora. Sono le undici e mezza.
Buttiamo a terra i cartoni e le bici e ci mettiamo in un angolo: inizia il secondo quadro, ovvero lo smontaggio.
Armato di chiave 15 inizio a smontare i pedali della Orbea di Agnese, la stanchezza mi lascia sfuggire l’attrezzo di mano, quasi mi fratturo un mignolo. Proseguiamo.
E’ mezzanotte passata.
I cartoni presi sono numerosi, ma di piccole dimensioni: dobbiamo fare pietosi collage tenuti letteralmente insieme con lo scotch per dare al nostro bagaglio una forma.
Due hostess si avvicinano con fare scocciato, e ci dicono che non possiamo stare lì, devono aprire il gate entro le 6.
Sono le due di notte. Su, niente scuse, ora mettiamo a posto.
Mettiamo i nostri catafalchi su un paio di carrelli, ora l’aeroporto si è popolato dei pochi, sventurati viaggiatori notturni. Dei jingle irritanti continuano a molestare il loro sonno già scomodo. Per cercare il nostro, di sonno, dobbiamo trovare uno spazio adatto, dato che i posti migliori li hanno già occupati. Scegliamo infine un angolo sotto un cartellone pubblicitario, dove ci pare ci sia meno passaggio. Lì stendiamo i nostri sacchi a pelo, i due carrelli con le bici imballate ai lati, e ci addormentiamo d’un sonno profondo che non sente ragioni o pudore, proprio come dei clochard. I neon dell’aeroporto, il passaggio delle persone, i jingle degli altoparlanti si trasformano in un’unica, melensa ninnananna che ci regala qualche ora di sonno senza sogni, autoimposto più che goduto.
Quando delle guardie ci svegliano per dirci che non possiamo stare lì, faccio in tempo a dare uno sguardo all’ora: sono le cinque e mezza, un grassone dorme sul divanetto del bar ancora chiuso. Rispondiamo alle guardie che ci togliamo subito, e chiudiamo gli occhi di nuovo.
Un paio d’ore dopo è il turno di una zelante funzionaria aeroportuale: it’s not allowed to sleep here, ci dice con piglio da maestrina. Ci guardiamo intorno con noncuranza: tutto attorno, gente coi trolley e montacarichi pieni di bagagli. La luce del sole.
La tizia resta qualche istante per sincerarsi che ci spostiamo davvero, ma le tocca aspettare ogni singolo, rilassato movimento che si fa quando ci si sveglia, prima di lasciare il letto: ci stiracchiamo, sbadigliamo, poco manca che le chiediamo se è pronto il caffè.
Colazione al bar: il grassone di prima dorme ancora sul divanetto, un gruppo di anziani turisti lo ha circondato coi loro caffè. Loro non sono per nulla infastiditi dal suo russare, lui non si sveglierebbe neanche con le cannonate. In fondo al terminal compare Massimo, tirando il suo pacco informe con una cordicella, come fosse un palloncino.
Andiamo tutti insieme al metal detector, a dichiarare con candore gli attrezzi usati per smontare le bici, come se fossero pericolose armi da attentatori.
Non c’è niente da fare, in aeroporto i cicloturisti restano un bug di sistema.
Il giorno dopo, non c’è verso di tornare a casa: rimontate le bici a Ciampino tra la curiosità dei militari di stanza lì, ci lanciamo a pedalare sotto il sole dell’Appia nuova, senza fermarci finché non compare l’insegna del kebab di Arco di Travertino. Atene / Roma, prima tappa Ciampino / Travertino. Il viaggio finisce con un inizio.