Bomba / Ortona
L’ultima tappa lascia sempre un po’ di malinconia, di solito è quasi un proforma poco importante, da espletare quasi soltanto per mettere la parola fine al viaggio. Stavolta invece ci attende un percorso denso, da percorrere in un arco di tempo limitato dagli orari di ritorno del treno per Roma.
Anche se le maggiori salite ce le siamo lasciate alle spalle, la conquista dell’Adriatico non è ancora finita, e la tappa finale del nostro viaggio, il cimitero canadese di Ortona, va guadagnata con fatica. La mattina sul lago è umida e brumosa, appena lasciato il campeggio ci mettiamo in cerca di un modo per non rifare il ripido tratto che riporta a Bomba e alla statale: lo troviamo nei pressi della diga alla fine del lago, dove uno sterrato in discesa ci fa perdere ulteriormente quota. Nella boscaglia Daniele resta indietro per fare foto, e rimasto solo si imbatte in una famiglia di cinghiali.
Giunti in fondo alla valle, traversiamo il Sangro e inizia il difficile: la salita per Collezingaro, pendenze aspre in mezzo a campi di ogni colore che un maggio in forma smagliante sia in grado di regalare. Da sopra, più in là, la Maiella assiste alle nostre fatiche col capo cosparso di nevi bianchissime. Valerio ansima.
Al valico dei cani gironzolano in attesa di viandanti da spupazzare e sbavare. Il vento increspa i campi inondati di giallo. La Maiella è sempre lì, e la sua mole ci accompagnerà per tutta la tappa di oggi, rimanendo visibile anche dalle coste.
Ci siamo allontanati di qualche chilometro dalla Gustav, ma la deviazione è volontaria e doverosa. Un cammino contorto dall’altimetria nervosa e incostante ci porta a Roccascalegna, paese fiabesco e aspro dall’architettura irreale che rischia di crollare definitivamente. Conoscendo i tempi e l’efficacia delle istituzioni in questi casi, un pellegrinaggio a questo luogo ci è parso doveroso.
“Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli.” (Pier Paolo Pasolini)
Ecco, io sono convinto che Roccascalegna sia uno di quei borghi dimenticati di cui parla Pasolini, una di quelle realtà particolari che resiste alle dinamiche globalizzanti in cui non esiste più memoria. E la prova definitiva ce la dà l’incontro, o la visione, alla croce ai caduti appena fuori dal paese.
Io e Daniele stiamo salendo qualche centinaio di metri più avanti degli altri, quando scorgiamo un anziano signore a passeggio, la cui figura ormai contorta dagli anni si staglia sulla vallata resa ancor più luminosa dalla Maiella sullo sfondo. Davanti a lui, i fiori e il monumento ai caduti. Daniele gli chiede il permesso di scattargli qualche foto.
Il vecchio è quasi del tutto cieco e sordo, la sua voce è un filo esile e acuto. “Io ho quasi cento anni, ho fatto la campagna di Siberia, sono stato in Russia, in Polonia, ho combattuto contro i tedeschi…”
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“[…] E adesso come cambia il tempo, la forza se cambia… giro col bastone. E come già ho dertto a Roccascalegna della mia età non vi è nessuno rimasto… io sono anche un grande invalido di guerra di prima categoria, invalido al 100%, e qua a Roccascalegna non c’è più nessuno con gli anni che ho io…”
Cerchiamo di fargli qualche domanda, ci fa segno di non intenderci, l’udito non è più quello di una volta. Le domande da fare sarebbero mille, ma la sua voce si strozza in un sibilo, si perde nelle pieghe della gola e nel fiato corto, cigola e squittisce sconsolato e sconfitto dal Tempo. Capiamo che non è il caso di insistere, salutiamo e lo lasciamo ai suoi ricordi.
Una vertiginosa discesa verso Altino e il paesaggio cambia ancora. Siamo notevolmente scesi di quota, il caldo si fa sentire e solo alcune colline ci separano da Castel Frentano. Le uniche costanti rimaste sono il profilo della Maiella e l’immancabile ferrovia abbandonata, che incrociamo di tanto in tanto sulla statale.
Dopo qualche saliscendi arriviamo a Castel Frentano, il cui cartello di ingresso sancisce fieramente come “città del bocconotto”: dopo facili e triviali battute, si viene a sapere che è il dolce tipico del posto. Durante una pausa ce ne dà eccellente dimostrazione la signora Giovina, che, vedendoci sudati con le bici, senza una parola rientra in casa per poi tornare con un vassoio pieno di dolci fatti in casa. “Questi li ho fatti io, li volete assaggiare?”
La signora Giovina di Castel Frentano diventa immediatamente la nuova mascotte della Linea Gustav, soppiantando a mani basse il gamberetto, i cui residui sparsi nel fondo della trombetta ormai attendono solo una degna cerimonia di sepoltura nell’Adriatico. E poi, cominciano anche un po’ a puzzare.
Arrivati a Lanciano decidiamo di non entrare nel centro abitato per risparmiare tempo, puntando dritti verso San Vito Chietino. La strada si è fatta meno interessante e più trafficata, ma anche pianeggiante, e questo ci permette di forzare un po’ l’andatura fino a quando l’Adriatico ci compare davanti vestito in un inusuale blu.
La Costa dei Trabocchi è uno dei pochi tratti di costa adriatica che rompa un po’ la monotonia a base di mucillagine, con pareti di scoglio a picco sugli scogli, pescherecci e atmosfere decadenti dal sapore dannunziano. Così a picco sugli scogli che non esiste un lungomare, e ci tocca fare gli ultimi chilometri fino a Ortona sulla statale: trafficata, ma sufficientemente larga da non risultare impossibile. D’un tratto, un cartello improvviso ma atteso ci annuncia la deviazione per l’ultima tappa del nostro viaggio: il cimitero canadese di Ortona.
Qui il giorno di Natale del 1943 si combatté una battaglia sanguinosa tra le truppe canadesi del generale Vokes e il 3^ reggimento paracadusti tedeschi, che valse alla città abruzzese il triste epiteto di “Stalingrado d’Italia”, così come commentò il New York Times. Hitler aveva impartito ordini ben precisi in quell’occasione: “Die Festung Ortona ist bis zum letzten Mann zu halten – la Fortezza Ortona va difesa fino all’ultimo uomo.” Kesselring non era dello stesso parere, ma le circostanze conferirono alla difesa di quelle zone un’importanza quasi simbolica che spinse i tedeschi a far confluire truppe scelte già impegnate a Montecassino. Nei giorni successivi si combatté anche nell’area urbana con estrema ferocia, gli edifici della città furono quasi interamente distrutti e il campanile del duomo abbattuto per privare gli Alleati di un utile riferimento geografico. Il bilancio fu drammatico: 1314 civili, 800 tedeschi e 1400 canadesi.
Passeggiando tra le schiere di tombe – impressionante la loro quantità – ci imbattiamo nel giardiniere del cimitero. È un omone corpulento dal viso buono, al quale due enormi baffi contribuiscono a dare un aspetto vagamente selvatico, eppure gentile. Sulla sua tuta da giardiniere scinitilla il distintivo del Commonwealth. Deve avvertire la nostra visita al cimitero come decisamente inusuale, ed è lui ad avvicinarsi incuriosito.
“Ah, avete fatto tutta la Linea Gustav? Pensate che il Commonwealth, per il quale lavoro, in Italia ha sede proprio a Cassino. Certo, se cercavate aneddoti di guerra, dovevate fermarvi a Lanciano, ci vive il mio predecessore ma ora è in pensione, ha 97 anni e queste tombe che vedete qui le ha riempite lui, li ha sepolti lui questi ragazzi. Qualche anedotto però lo ha raccontato anche a me: durante i bombardamenti a Ortona i vivi si venivano a nascondere nelle tombe qui sotto insieme ai morti, nelle gallerie dei tumuli, qui morti o vivi faceva lo stesso. C’era così tanta gente stipata sotto terra nelle fosse che si doveva dormire tutti in verticale, l’uno accatastato all’altro, ché non c’era spazio. Le donne erano tutte insieme, chiuse da un telone e raggomitolate tra loro. Se qualche bambino si lamentava che il cibo era poco, che da mangiare ci fosse solo pane e non companatico, la madre prendeva la mollica, la pressava e gli diceva: tieni, fa’ finta che questa sia formaggio.”
Attoniti da questi ultimi racconti, facciamo rotta verso il centro di Ortona. La tabella di marcia è migliore del previsto, e ci lascia tempo per due importantissime operazioni: fare il funerale al gambero e gettare i suoi resti nell’Adriatico, e strafogarsi di cibo. La prima delle due operazioni viene celebrata con rito solenne, e quelli che ormai sono dei miseri frammenti rossastri vengono sparpagliati dal molo del porto alla presenza divertita di alcuni scaricatori senegalesi; la seconda viene parimenti celebrata finendo le scorte di arrosticini e birra di un chiosco in centro: 115 arrosticini e una decina di birre. Che non si prenda per irriverenza, piuttosto come celebrazione: la Morte, la Storia e la Bici mettono sempre appetito.