Cairano / Gravina di Puglia
La tappa di oggi, dopo i cambi di programma e di percorso di ieri, si rivela di una quindicina di km più lunga del previsto. Non paghi del problema, dato che i 120 km che ci separano da Gravina ci sembrano un’inezia, forse stregati dalla magia di Cairano decidiamo di prendercela comoda e visitare di nuovo la rupe, stavolta di giorno.
Se la notte la rende un luogo in cui i pensieri tremano al fascino del vento, il primo mattino la vista delle vallate irpine è resa irreale dalle nebbie umide.
“Quando da Salerno Marina il tempo non è sincero, da noi piove il pomeriggio, così dicono gli anziani di paese, e ci prendono sempre”, ci spiega Luca.
Sono le 9 passate quando arriva il momento dei saluti, e le promesse di ritorno. Praticamente ci sentiamo ormai cittadini onorari.
Ma è il tempo di tuffarsi nella discesa verso l’Ofantina, quei tornanti che ci hanno fiaccato gambe e ginocchia ieri sera. Oggi preferiscono rifarsi su gomiti e mani, che rimangono incollati ai freni, estenuati dal logorio continuo della gomma sui cerchi. Il peso del carico mette a rischio la capacità stessa di arresto delle bici. Lo dico sempre, che sono meglio le salite.
Giunti in fondo, percorriamo una manciata di chilometri della superstrada per Melfi, una quantità sufficiente per convincere Agnese e Massimo a non volersi vedere arrotati da altri camion: la carreggiata è stretta, e nonostante questo le velocità dei tir e la loro disinvoltura nei sorpassi non la rendono esattamente piacevole.
Al primo bar (e alla seconda colazione) prendiamo la decisione di separare nuovamente il gruppo: 115 km sono tanti, sono quasi le 11 di mattina, e i camion sembrano pretendere un tributo al dio asfalto a ogni loro rombo: tutti ingredienti che fanno deviare Agnese e Massimo verso nord, in cerca della linea ferroviaria e di una tappa più breve. Per esempio, i 39 km che passano per Calitri e portano a Rocchetta Sant’Antonio.
Io sono cocciuto e attaccato come un somaro all’immagine mentale del programma prestabilito su carta, Laura è abbastanza sconsiderata da affermare candidamente “Io voglio pedalare”, così ci mettiamo in cammino lungo la superstrada, con la promessa rassicurante di uscirne presto.
Fila indiana, cautela e orecchie tese a distinguere le frequenze basse dei diesel dei camion da quelle più rabbiose e isteriche delle auto sportive guidate da gente con complessi da sanare.
Passiamo l’uscita per Rapone, per fortuna il traffico è rado, e la strada quasi silenziosa. Ogni tanto qualche mostro di metallo colorato sbuca da una curva cieca, noi teniamo le nostre ruote incollate alla striscia bianca della carreggiata, come fosse un gioco d’equilibrio. Finalmente usciamo in direzione Atella, per imboccare una più tranquilla statale.
La salita si fa graduale ma gratificante, i boschi continuano ad avvolgerci: l’Irpinia sembra aver capito che ci stiamo congedando, e si è messa il vestito delle grandi occasioni. Sullo sfondo, il Vulture si prepara ai saluti della terra di dove finisce la terra.
Un breve tunnel segna lo scollinamento, e una nuova, lunga discesa ci porta ai piedi di Atella: corriamo lungo il confine con la Basilicata, e i colori del paesaggio mutano radicalmente. Il giallo intenso del grano e la macchia verdastra e più rada degli arbusti ci accompagnerà per i prossimi meravigliosi chilometri, fino al passaggio nelle Murge pugliesi.
Se il paesaggio è meraviglioso, uno dei motivi è la bassa densità abitativa: da qui in poi la frequenza dei centri abitati diminuisce, e dobbiamo fare maggiore attenzione alle scorte d’acqua. Decidiamo quindi di scalare le pendenze del centro di Atella per una breve pausa.
Il paesaggio è figlio legittimo del Sole e della Terra.
Braccia nei campi, / rughe al sole, / muscoli tesi, / mente altrove
Le strade semideserte di Atella all’ora di pranzo echeggiano delle prove della banda di paese. Chiediamo per un bar e un bancomat, ci mandano nel centro storico: e nel centro, al sud, c’è sempre una Piazza Matteotti.
Sguardi vogliosi di sudici bifolchi locali al passaggio di Laura in piazza del municipio. Sguardi da incontro extraterrestre al passaggio delle bici cariche.
Ci fermiamo in un bar per riempire le borracce e prendere un chinotto. L’affabile banconista, un tipo giovanile sui quarantacinque con sguardo da chi la sa lunga della vita, scambia qualche chiacchiera con noi:
“Di Roma, eh? Ci sono stato da poco, con mio figlio: lui è calciatore come lo sono stato io, gioca nel Melfi come centrocampista centrale.”
Salutiamo, lasciamo il paese e ci rimettiamo in cammino: è già l’una e vogliamo raggiungere almeno Venosa per pranzo, la strada è ancora lunga. Nel frattempo, più a nord, Massimo ha forato due volte, e questo ha fatto loro perdere il treno Rocchetta / Foggia delle 15 e le conseguenti coincidenze Foggia / Bari e Bari / Gravina. La tappa inizia a farsi problematica.
Ci avventuriamo per una strada rurale secondaria, dove un ponticello di cemento nasconde un corso d’acqua pieno di buste sporche, e dove soprattutto l’asfalto cede il passo senza preavviso a un ostico sterrato sassoso. Facciamo dondolare il nostro pesante bagaglio sulle asperità, tremando per le pressioni sui raggi.
Ma tutto intorno si dischiude l’arido fascino lucano: immense pale eoliche scandiscono il tempo con solennità, il giallo invade gli occhi tanto da bruciarli, il bruciato annerisce zone di campo meno fortunate.
La solita strada bianca come il sale si fa un nastro diritto e polveroso, il western nostrano si mostra in tutto il proprio splendore. Il caldo si fa opprimente.
Superiamo il tragitto della vecchia ferrovia, che un tempo correva sulla sommità del costone che separa Atella da Ripe Candide. L’approssimarsi di un gregge di pecore ci impone la precedenza e il rispetto che ogni pellegrino o viandante deve alle attività agricole: se sai di venire dalla Terra, rispetti chi ci lavora. Il corteo di ovini scortati da cani da pastore con innata cautela sembra fermare il tempo: nulla è più importante o viene prima di un gregge di pecore che invade la carreggiata.
Il primo dei cani attende l’arrivo del gruppo, ci sorveglia con lo sguardo. Noi attendiamo immobili, sicuri della sua territorialità. Passa il secondo cane da pastore e gli esemplari più forti. Poi gli agnelli e le pecore zoppe. Chiude un terzo cane e il contadino, quasi superfluo in questa liturgia perfetta.
Nuova vallata per noi, e nuova, interminabile discesa: improvvisandoci ciclisti da downhill sfidiamo le pendenze con un’unica, interminabile frenata che rende incandescente i pattini dei freni. La sensazione di sprofondare nella vallata è inquietante. E ora come se ne esce?
Di fronte a noi, Ripe Candide e nuova salita; a destra, un sentiero ancor più dissestato che scende ancora; davanti, la superstrada oraziana; dentro di noi, arsura e fame da digiuno delle 2.30. Superiamo una fonte che scopriamo essere secca, uso l’acqua melmosa per bagnare la bandana e avvolgermela in testa. Decidiamo quindi di immetterci nella superstrada con un piccolo off-road nella sterpaglia, dato che svincoli non ce ne sono.
Uscire dalle grandi rotte e cercare il bandolo della matassa per vie traverse è indubbiamente più affascinante, ma i morsi della fame e la meta ancora lontana impongono linearità e asfalto liscio. E superstrada sia.
L’idillio con la velocità dura poco: a 400 metri uscita obbligatoria, lavori in corso.
Ancora ebbri del gesto anarchico e trasgressivo dell’immissione in superstrada sollevando le bici sul guardrail, proseguiamo dritti ignorando i divieti: magari le macchine non passeranno, ma una bici passa dappertutto.
Un chilometro più in su c’è un cantiere, a ridosso dell’imboccatura di un tunnel: avvicinandoci, notiamo macchine da lavoro in azione. Il manovratore di una ruspa ci lascia avvicinare, mal celando una certa sorpresa, poi ci chiede perché siamo lì:
– Possiamo passare nel tunnel, portando le bici a mano?
– Guarda, fosse per me ti farei pure passare, però il tunnel non esiste ancora, lo stiamo scavando ora.
Superiamo la collina portando a mano le bici su una ripida rampa sterrata, e ci ritroviamo in una tavola calda sulla vecchia statale che diverrà presto obsoleta a fine lavori. Sono le tre di pomeriggio, e lo stomaco reclama gli arretrati: panini e frutta ci fanno dimenticare la disidratazione.
Ancora un bellissimo sterrato tra i campi e la macchia, dove si alternano tratti di sterrato a buche improvvise: una volpe ci vede arrivare, accenna qualche passo sulla strada e scompare nella boscaglia.
Passato l’ultimo strappo, nuova discesa e siamo nelle Murge: l’ingresso a Venosa segna l’ennesimo cambio di scenario. Terra arsa dal sole, lunghe distese a perdita d’occhio e alture tondeggianti sullo sfondo.
Non ci rimane che percorre un interminabile rettilineo nei campi, nel silenzio più assoluto. L’imbrunire rende i colori ancor più accesi, il grano ci incita verso la meta.
Mancano ancora 25 km quando inizia a tramontare: non siamo ancora troppo stanchi, le luci le abbiamo, arriveremo un po’ più tardi ma arriveremo… quand’ecco apparire di fronte a noi un vecchio pandino verde: Michele, sapendo del nostro ritardo, ci è venuto incontro per caricarci:
– Ma Michele, non dovevi!
– Ma piantatela, è quasi buio e ci corrono i camion.
– Ma stavamo a 95 km! Così ci neghi il piacere dei cento!
Nessuna possibilità di replica, i ganci per fissare le bici sul tetto del pandino sono già sull’asfalto. Michele ci carica per un trionfale ingresso a Gravina, dove non possiamo far altro che lasciarci coccolare dalle mille attenzioni di lui e sua moglie – a partire da una cena da guinness dei primati. Le melanzane paiono avere natura divina.
Il resto della serata è storie e aneddoti, cortesia di luoghi in cui l’ospitalità è sacra, racconti di apparizioni divine e sonno imperante.
Le terre degli Iapigi e il culto di Priapo
Due figure mitologiche sono legate a queste terre, quella di Iapige e quella di Priapo.
Del primo sappiamo poco, se non che era l’eroe eponimo della popolazione degli Iapigi, con la quale furono spesso identificati – magari con un po’ di confusione – anche i Messapi e Dauni. A questo punto occorre fare un po’ di chiarezza nella confusione imperante tra nomi e luoghi – solo per farsi un’idea, i Romani dividevano l’odierna Puglia in due: la parte settentrionale, la provincia di Bari e le Murge, al tempo abitate dai Peucezi e dai Dauni, erano l’Apulia, mentre quello che è diventato il Salento, le terre dei Messapi e Iapigi, era detto Calabria.
Ma torniamo a Iapige: egli abbandonò le terre di Illiria in seguito a certi screzi avuti da suo padre Licaone con Zeus: il re aveva servito infatti della carne umana al Padre degli Dei, che si era presentato come ospite sotto mentite spoglie, e quello lo trasformò in lupo. All’innocente Iapige, rimasto col padre lupo, non rimase che emigrare in cerca di prospettive migliori: e trovò dall’altra parte dello Jonio un territorio ricco e prospero nel quale rifarsi una vita.
Un territorio che vantava già tradizioni curiose, che risalgono a certe dispute tra dei gelosi, e che ha lasciato delle tracce altrettanto curiose.
Nelle gialle e aride colline della Murgia, così come nelle distese coperte di ulivi del Salento, non è raro incontrare dei cippi fallici in pietra: queste “colonne”, per dirla con un eufemismo, hanno delle radici antichissime, collegate a un culto che esiste almeno da quando esiste l’istinto all’accoppiamento e il terrore di non poter assicurare la sopravvivenza della propria specie: quello della fertilità.
Ma vediamo come sono andate le cose sull’Olimpo: la storia è antica, e riguarda come al solito quegli sporcaccioni degli dei. Parliamo in particolare di Afrodite: la dea era molto gelosa della sua magica cintura con la quale faceva innamorare chiunque la vedesse, e raramente la prestava per paura di perdere il suo privilegio di seduttrice.
Quando Zeus la diede in sposa ad Efesto, dio zoppo, deforme e di aspetto decisamente poco attraente, ella si diede da fare per far crescere più rigoglioso che mai il suo cestello di corna.
Il primo della lista fu Ares: il dio guerriero, bello, forte e impetuoso se la spupazzò spesso e volentieri durante le assenze di Efesto, finché questo, avvertito dal sorgere di Elio, il sole, non scoprì l’adulterio e ideò una vendetta esemplare: con le sue arti fabbricò infatti una rete di bronzo sottilissima ma estremamente resistente, e la fissò al suo talamo. Quando i due amanti ci si ritrovarono dentro, vi rimasero imprigionati: così al dio zoppo, deforme e pluricornuto non restò che la soddisfazione di chiamare a testimoniare tutti gli dei del proprio disonore, per ottenere risarcimento.
Lo spettacolo di Afrodite nuda e prigioniera suscitò non pochi commenti, risatine e gomitate ironiche tra gli dei – solo Zeus, che aveva Era a fianco e non si poteva sbilanciare proprio sulla figlia adottiva, si mantenne serio e mostrò disapprovazione e disgusto per il fatto; Ermes e Apollo, da bravi compagnoni, si presero in giro a vicenda chiedendosi l’un l’altro se avessero voluto fare a cambio con Ares lì dentro alla rete; Poseidone, da vecchio marpione laido, finse di prendere le parti di Efesto, proponendo il risarcimento della dote da parte di Ares, e garantendo che se non avesse mantenuto la promessa avrebbe preso lui volentieri il suo posto sotto la rete di bronzo. Ermes fece lo stesso.
Trovato questo grottesco compromesso, Ares fu rimesso in libertà e ovviamente non pagò il risarcimento, e mentre il povero Efesto rinunciava a ogni pretesa pur di tenersi la moglie infedele, la bella Afrodite trovò il modo di ringraziare ognuno degli dei che aveva preso parte al componimento della lite.
A modo suo, ovviamente.
A Poseidone diede due figli, Rodo ed Erofilo, mentre da una fugace avventura con Ermes nacque Ermafrodito, creatura dal doppio sesso. E con Dioniso, che non c’entrava nulla ma evidentemente passava di lì e non c’è due senza tre, generò Priapo. Questo per dire che se Zeus va con le ninfette è un simpatico guascone, Afrodite invece tutti a giudicarla.
Ma qualcosa col dio del vino e dell’ebbrezza andò storto, poiché il figlioletto nato era orrendo e presentava degli enormi genitali: responsabile di quell’aspetto mostruoso fu Era, questo il suo modo di mostrare disapprovazione per la promiscuità di Afrodite. Bacchettona o gelosa? Mah…
Ma torniamo a Priapo: impacciato soltanto dalla sua natura, il fanciullo assumeva ora aspetto caprino, ora asinino, quel che è certo è che come il padre non sapeva tenersi. Una volta tentò addirittura di violentare Estia, dea del focolare, unica a non aver mai preso parte a guerre o dispute, consacrata alla verginità: durante una rustica festa, quando furono tutti addormentati, sazi di cibo e vino, il dio ubriaco le si avvicinò, ma proprio in quel momento un asino ragliò svegliando tutti e mandando a monte il tentativo.
Il suo culto si diffuse in Italia meridionale e rimase particolarmente caro ai pugliesi e ai romani, che organizzavano processioni in suo onore dove si sbandieravano enormi falli eretti. Gente allegra, insomma.