Corte / Tattone
È questa forse la più spettacolare delle tappe montane, anche se non ci troviamo ancora così in alto.
Lasciata non senza rimpianto Corte, ci dirigiamo per una strada in mezzo agli ulivi, che nel primo tratto è piuttosto frequentata da automobili; la salita non è troppo dura, ma costante, ed essendoci mossi tardi il sole è già alto e si fa sentire; il percorso alterna tratti ombrosi a punti più esposti. Alla fine della scalata, che si fa più dura andando avanti, ci troviamo sui 900m circa, forse anche qualcosa di più, per poi scendere a picco in una breve ma bellissima discesa alberata verso Venaco, dove ci fermiamo per comprare qualcosa da mangiare. Venaco è nient’altro che un panoramico ammasso di case che si snoda attorno alla strada principale, circondata sopra e sotto da boschi e fiumi. Il gestore del forno dove ci riforniamo, un equivoco riccio brizzolato, vorrebbe spingerci a passare la notte al campeggio del cugino, ma per noi è ancora presto per fermarci. Notiamo ancora la doppia nomenclatura francese-corso dei luoghi sui cartelli stradali.
Proseguiamo dopo una breve sosta, e ci inoltriamo attraverso scorci sempre più panoramici e spettacolari: il culmine viene raggiunto sul ponte Eiffel, viadotto ferroviario costruito dall’ingegnere autore della più famosa Tour, come si riconosce dal caratteristico stile con travi metalliche sostenute da ardite strutture, sul quale passa il trinchellu, il trenino turistico il cui percorso ci accompagnerà fino a Zonza. Sotto di esso sorge ancora il Ponte Vecchio, un antico arco in muratura che sorpassa, ancora parecchi metri in basso un bellissimo torrente al quale scendiamo per pranzare e per fare il bagno. Le acque sono fresche, limpidissime e piuttosto impetuose: per guadare delle cascatelle, Federico prenderà una brutta storta, che per qualche istante abbiamo temuto capace di mandare a monte l’intera vacanza.
Ci appollaiamo su un lastrone di pietra in mezzo al fiume, il cui guado presenta qualche difficoltà
per Francesco, che ovviamente non gode dell’aiuto degli altri tre, che restano a commiserarlo
dall’alto. Restiamo lì per la prima metà del pomeriggio, fino alle 5, tra pozze d’acqua e anfratti
rocciosi, sguazzando inconscienti di noi stessi, alcuni di noi pietosamente in mutande, per pura
pigrizia di mettersi un costume.
Prima di ripartire, abbiamo il primo problema con le bici: per dare una gonfiata alla ruota
posteriore, sforzata dal peso eccessivo, ne rompo la camera d’aria all’altezza della valvola. La
sostituzione richiede un po’ più di tempo del previsto, bisogna smontare l’intero carico, e per di più
dopo il cambio i freni posteriori risultano molto lenti, quindi il resto della tappa ha un ritmo meno
sostenuto; si sale ancora verso Vivario, paese sperduto nelle montagne e scarsamente popolato.
Commettiamo l’errore di non fermarci a fare provviste per la cena lì, perché il campeggio si rivela
molto più lontano dal paese e soprattutto perché la strada è tutta in forte salita per circa 4km.
Per arrivare al camping Savaggio scendiamo 500m in ripidissima discesa, per giungere a un
singolare ammasso di tende e strutture addossate al declivio della montagna, sotto una pineta, ai
piedi passa l’unica rotaia della ferrovia; il posto è gestito da una leggendaria grassona, che ci dice di essere vissuta a Roma e di conoscere un po’ di italiano.
Ci buttiamo sotto le docce, che ci accolgono con un getto d’acqua gelida, permettendo a Gianluca di vincere il Premio Troll serale (ormai un ambito riconoscimento quotidiano da assegnare a chi dei quattro calpesti in modo più efferato la moralità occidentale e la civiltà umana) per il suo urlo lacerante: “È fredda, mortacci della cicciona!!!!!” I suoi uffici sono di fianco alle docce, Gianluca. E la prima cosa che ci ha detto è di sapere l’italiano.
A cena, non manchiamo di continuare la serie positiva già iniziata: il campeggio è provvisto di un
ristoro a base di carne e grigliate, e siamo serviti dalla cicciona in persona; il suo accento francese
sull’italiano e soprattutto le sue traduzioni inappropriate risultano irresistibili a noi beoti: “e questo
è a base di bœuf, come dite voi? Ah sì, la VACA!”
E vabbè.
La signora, nello spiegarci il contenuto dei vari piatti, insiste poi nella parola porco, che lei
pronuncia marcando la r: carne di porrrrrrco, costolette di porrrrrrrco.
Non ce la posso fare, alla prossima non ce la faccio, ripeto tra me me. All’ennesimo, inesorabile
porrrrrco le sbotto a ridere in faccia, mascherando malamente con un finto starnuto. Penoso.
In serata, dopo aver controllato gli orari del trenino ed esserci sincerati che l’ultimo treno della
giornata è già passato verso le 8, ci sdraiamo sui binari a guardare nei buio del bosco l’immensa
volta celeste, con molte e frequenti stelle cadenti. Il campeggio pullula di bambini tedeschi in gita,
che giocano tra i cespugli… ah, quanto rompono questi petit garçon… improvvisamente, sentiamo
dei cespugli muoversi insistentemente nel buio, ancora quei rompipalle dei petit garçon, diciamo
noi, aspetta un attimo, ma non sono ragazzini, punta un po’ la torcia… in quel momento ci alziamo
di scatto e veniamo mancati di un soffio da un paio di bovini al galoppo, più spaventati di noi. Da
questo momento in poi, petit garçon diventa sinonimo di bovino per tutto il viaggio.