Delfi – Distomo
Dopo due giorni di idillio, anche Delfi va lasciata: ad maiora.
In questo caso i maiora sono le alte cime del Parnaso, a circa metà strada del nostro itinerario di oggi. Occorre pianificare con attenzione le altimetrie della giornata, dato che da queste parti non ci sono strade in orizzontale.
Massimo nel frattempo decide di proseguire verso il mare, lasciandoci in quattro. Provato nel fisico e nell’attrezzatura, preferisce i lidi balneari agli stazzi dell’entroterra, più possibilità di risolvere i problemi e di trovare alloggio. Lo rivedremo tra qualche giorno, di sicuro alla meta.
Lasciamo quindi con riluttanza gli ulivi ombrosi del camping Delphi, dopo un’abbondante colazione. I primi quattro chilometri di strada li conosciamo già, solo che ieri li abbiamo fatti senza carico. Superato per l’ultima volta l’enorme anfratto del santuario, ci si apre una strada lunga in salita che costeggia la vallata a destra. Il primo sudore inizia a colare.
Un tornante, poi un altro, un altro ancora: a un certo punto, in uno spiazzo polveroso dell’interminabile salita, notiamo una carcassa di un pick-up. Non ha più le ruote e giace battuto dal sole, in attesa di tornare di nuovo utile a qualcuno: eccoci qua.
Oltre alle solite foto di rito in cui mi arrampico su mezzi abbandonati in scenari rurali degradati, il pick-up ci offre dell’altro. Curiosando nel suo interno, infatti troviamo una latta di olio lubrificante, proprio quello che avevamo finito e che serve alla catena della bici di Fiorella. Guarda caso, c’è anche un vecchio pennello, e il pit stop è servito.
Il sole picchia, ma la quota e il vento rendono piacevole la scalata verso Arachova: le tre fanciulle macinano i tornanti con facilità. Un’ampia svolta occupata da un negozio di tappeti preannuncia l’ingresso in paese: il bianco della parete dell’edificio è quasi completamente sommerso dalle fantasie colorate e arabeggianti delle stoffe; accanto, una fonte di acqua fresca, con sopra una scritta che invita a bere – drink this water, is good for the stomach.
Arachova è un paesino ridente che gode evidentemente di un folto turismo invernale. L’impressione è di non trovarsi più nemmeno in Grecia – se non fosse per la valle petrosa e profondissima che dall’ombelico del mondo sprofonda verso il basso, e per i colori arsi dal sole, potrebbe essere un borgo appenninico.
È ancora relativamente presto, mezzogiorno circa, il caldo ha allentato la sua presa di fronte ai 900 metri di quota, così decidiamo di tentare l’impresa: la scalata del Monte Parnaso. La sua mole imponente ci aveva già accolto arrivando da Galaxidi, tra le ripide alture della zona, come ad avvertirci: se riuscite a evitare i cani, v’aspetto io, tranquilli.
Il farmacista del paese, Dimitris, ci sente parlare e ci avvicina rivolgendosi a noi in italiano: ha avuto una ragazza romana e ha studiato a Camerino. Lui sorride quando nota la mia spilletta sul cappello, “Partito Ciclista Italiano! Sembra proprio il simbolo del PCI!” Glielo regalo, poi gli chiediamo se c’è la possibilità di lasciare i nostri bagagli in un posto sicuro, e lui ci porta in un bar di suoi amici: dopo qualche frullato e rustici in quantità industriale (“Vedo la gente mangiare” era già diventato il mantra di Laura da Nafpaktos in poi), liberi dal peso polveroso e sudaticcio di due settimane di strada ci accingiamo a salire sul Parnaso. Unico vincolo: chiudono alle 18.30, sono 38 km di salita e discesa da completare entro quell’ora.
I primi tornanti di salita sono simili alla strada tra Delfi e Arachova: assolati, costanti, aridi.
Il ritmo si fa regolare, mettiamo in coppia il battito cardiaco con la pedalata. Passiamo un tunnel di cemento, dove facciamo una sosta approfittando dell’ombra: orino nel vuoto restituendo un po’ di liquidi alla secca sterpaglia della vallata.
Ancora qualche centinaio di metri e scolliniamo: il vento si fa più forte, un breve tratto in tortuosa discesa e ci ritroviamo in un altopiano sterminato. Pare l’Oklahoma, altro che Grecia.
La strada è un nastro dritto, il pianoro è chiuso da ogni lato da ripidi monti, qua e là bar e stazioni di servizio tipici delle soste di chi va in settimana bianca. E lì a destra, sempre le forme aguzze del Parnaso. Manca ancora un sacco. Ci fermiamo al Poliko cafè, un tipico bar di montagna di passaggio, veranda di legno e amari sullo scaffale dietro al bancone. I ragazzi che lo gestiscono ci riempiono le borracce con gentilezza discreta, il tempo di una pausa e si riparte.
Dopo qualche tentativo di tagliare la scalata per sterrati, appuriamo che le bici di Agnese e Fiorella non possono permettersi una salita sui sassi: si decide quindi di allungare per la strada asfaltata.
Nuova salita: si inerpica prima in maniera graduale, poi più decisa nel bosco. Il verde ci affoga, il silenzio ci finisce.
La sensazione di esserci dentro fino al collo è netta, i copertoni neanche fanno più rumore sull’asfalto, non ci sono macchine. Mancano solo satiri e ninfe, e nel frattempo la cima continua ad apparire e sparire a seconda delle curve della strada. Anche il verde si fa più intenso, e l’aria leggera. La scalata è catartica, e neanche troppo impegnativa.
Ancora un po’.
Agnese non ha il rampichino, e le pendenze si fanno troppo impegnative per la sua Orbea, così decide di tornare indietro al bar e aspettarci lì. Il vento si trasfigura, ulula, ci accompagna fino in cima.
Uno spiazzo di cemento, lo ski center, un’architettura molesta e sgradita agli dei.
E poco più su, ecco le rocce aguzze della cima.
LA cima.
Il tetto del nostro viaggio, la bandierina da piazzare, l’unico lembo di terre emerse dopo il diluvio universale. L’incarnazione stessa della poesia, la sintesi tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, il luogo che tutto unisce e separa.
Il vento ulula ancora, noi facciamo sventolare una maglietta a un palo come vessillo dell’impresa.
E prendiamo qualche pietra, per lanciarcela alle spalle come nel mito della creazione, magari sperando in un’umanità futura migliore.
La discesa ci inebria di profumi e tornanti, i muscoli delle braccia si tendono mentre la quota cala e la temperatura risale. Tornati ad Arachova, riprendiamo i bagagli e ci fermiamo a scambiare qualche parola con un coppia barese di passaggio al bar.
Sono archeologi, e vengono in vacanza qui da dieci anni. Luigi ha lo sguardo vispo e i modi gentili, e sua moglie non è da meno: conoscono vita, miti, morte e miracoli della zona.
– Dovreste andare alla grotta delle Muse, la Corycian Cave, è qui vicino.
Maledette le scadenze e i programmi, tempo non ce n’è e ogni deviazione è una scelta che esclude altre possibilità. Ma è nei giochi del viaggio.
Al momento dei saluti, Luigi regala a Fiorella una copia del suo libro di liriche; uno di questi parla proprio di quanto i greci amino gli italiani. Prima di ripartire salutiamo anche Dimitris, appena ritornato alla sua farmacia pedalando con disinvoltura in MTB e sandali. Arachova è un altro luogo da chiamare casa, in cui restare, in cui tornare.
Ci scambiamo i contatti con lui, e lo salutiamo con la promessa di rivederci da qualche parte – qui, là, altrove, non importa – è un’altra tappa del Viaggio, un altro dono raccolto lungo la strada.
Ma il pomeriggio volge al termine, e noi abbiamo ancora 25 km da coprire – di discesa, certo, ma pur sempre 25.
Ciò che sappiamo per certo è che campeggi in zona non ce ne sono, e che dobbiamo ancora trovare un posto per la notte dalle parti del monastero di Ousios Loukas. Fortunatamente si scende, le scalate per oggi sono finite: una discesa lunga e gentile si inventa nuove prospettive per prolungare il nostro piacere. I pedali non servono più, se non per tenere l’equilibrio tra le ampie volute della strada, tutto ciò che dobbiamo fare è goderci il vento e il bianco scosceso dei monti dietro i quali tramonta il sole.
Il profumo della menta selvatica si mischia a quello del catrame, il fondo stradale è stato appena rifatto e sembra di scivolare in un autodromo di formula uno, senza attrito.
Arriviamo così a Distomo, un borgo tranquillo in fondo alla vallata, concludendo così una tappa praticamente perfetta – no stress, no problemi, tanta roba.
Nella piazza principale, anziani si affrottano su altri anziani ai tavolini dei bar, che sono disposti in maniera panoramica per godersi lo spettacolo del viavai della strada. E’ una città anziana di soli uomini ciccioni, le donne sono in casa, non esistono o si mimetizzano bene. Distomo stride per questi motivi con la popolazione giovanile e vivace di Arachova, che al confronto sembra quasi un centro Erasmus. E poi è la Marzabotto greca, come testimoniano i numerosi monumenti ai caduti di un ferocissimo massacro nazista.
Uno degli animali da tavolino ci chiama, parla un buon italiano: è un signore sulla sessantina, e ci dice di aver studiato giurisprudenza a Genova. L’amore dei greci per gli italiani comincia a delinearsi in una storia di emigrazione, formazione e ritorno.
Una fazza, una razza.
Ci consiglia un alberghetto nella piazza principale del paese, il Koutriaris: 15 euro a persona per un letto e un bagno, il campeggio non costa molto di meno.
Ci prendiamo una birra per festeggiare la tappa, e al momento di pagare il cameriere viene intercettato dall’anziano signore al tavolino vicino, che ci offre le consumazioni – inutili le proteste, il vecchio mette i soldi in mano al cameriere e brinda alla nostra.
Una fazza, una razza.
Dopo una passeggiata per le (tre) vie del paese, in cui i cani si contendono gli spazi coi gatti e con i parcheggi selvaggi, ceniamo in una tavola calda sotto l’albergo: la famiglia che la gestisce non è greca, lo capiamo dai lineamenti. La loro dignità silenziosa è percepibile da ogni minimo gesto, mentre ci portano piatti e bottiglie occupando anche le sedie dei tavoli vicini per la mancanza di spazio.
A mezzanotte, poi, quello che speravo di far passare in sordina torna puntuale a ricordarmi che invecchio: Fiorella, Laura e Agnese si sono organizzate per far arrivare la torta di compleanno a sorpresa, mobilitando tutto il paese.
“Come li festeggiate voi i compleanni qui, cosa mangiate?“, aveva chiesto Fiorella all’albergatore.
“mah… Souvlaki, pork”, aveva risposto lui, come se fosse la risposta più scontata del mondo. Nonostante questo, con un paio di telefonate era riuscito a rimediare una graziosa torta di cioccolato guarnita di tre topi di zucchero. Il corpo del reato era stato poi portato al ristoratore, che al momento giusto l’ha sfoderato.
Come non commuoversi? In 34 anni di vita non m’era mai capitata una cosa del genere.
La notte finisce nella movida, con un ouzo consumato tra gli arzilli signori nella vivace vita notturna di Distomo e i cani che ci seguono in cerca di coccole.
IL MONTE PARNASO E IL MITO DELLA CREAZIONE
Il Monte Parnaso supera i 2500 metri, e all’interno della frastagliata geologia greca si (imm)erge tra le nebbie oltre l’azzurro dello stretto di Corinto. Un posto oltre ogni umana comprensione come doveva esserlo tremila anni fa, non può che essere stato usato per ambientare il mito (uno dei miti) della Creazione. O meglio, del passaggio da un’epoca all’altra tramite la distruzione e la ricreazione del genere umano.
Dato che il lungo filo delle religioni umane, nella loro affannosa ricerca alla spiegazione del Perché ultimo e delle nostre paure, è tutto sommato lo stesso da cultura a cultura, in questa storia troveremo più d’una analogia con la tradizione biblica: come nell’Antico Testamento, infatti, all’origine di tutto c’è una razza umana degradata, delle divinità insoddisfatte dei loro pupazzetti, e soprattutto l’acqua come elemento purificatore: una bella lavata e via, si volta pagina.
E se nel caso della tradizione cristiana si trattò del fratricidio ad opera di Caino, anche qui c’entra un “agnello sacrificale” ucciso nella più totale fiducia verso il suo ospite, lo sventurato Nittimo.
Ma andiamo con ordine.
Il Caino di turno in questo caso è il figlio di Pelasgo, Licaone: ne abbiamo già parlato fugacemente po’ di giorni fa, ma ci trovavamo ancora in Lucania tra lupi e cacciatori: Licaone, come già il nome presagisce (lykos = lupo), aveva civilizzato l’Arcadia e istituito il culto di Zeus Liceo: quando però gli sacrificò un fanciullo, il dio si adirò. Niente umani, cribbio, sono indigesti.
Decise quindi di andare a controllare di persona per avere una prova diretta della sua empietà, ma per farlo ricorse a uno dei suoi travestimenti, assumendo le sembianze di un vecchio mendicante cencioso.
Avvolto nei laceri panni, si presentò così a Licaone chiedendogli ospitalità: il re lo accolse alla sua mensa, ma nella sua sfrontatezza ebbe l’ardire di servirgli come pasto le interiora del fanciullo Nittimo, miste a quelle di pecore e capre. Poi uno se lamenta di McDonald’s.
Ma Zeus non lo freghi tanto facilmente, ed ecco, la frittata è fatta: solo che al posto delle uova di una normale frittata caddero secchiate e secchiate d’acqua, senza posa, estenuanti e inesorabili. Tutto questo, non prima di aver tramutato lo scellerato re in un lupo, condannandolo a vagare senza patria in perpetuo esilio.
La pioggia continuava a tormentare le terre emerse, dal Peloponneso alla Tessaglia, dall’Epiro all’Eubea: Zeus era disgustato dall’intero genere umano, e con Licaone la goccia aveva letteralmente traboccare il vaso.
Un barlume di speranza fu però affidato all’unica coppia di umani che aveva fornito una sincera ospitalità a quel povero viandante, senza troppo badare al suo aspetto o curarsi chi fosse: il vecchio Deucalione – il Noè di turno, insomma – e sua moglie Pirra.
Su consiglio del Titano Prometeo i due costruirono un’arca – beh, l’arca era roba da pezzi grossi tipo Noè, qui niente trasporto animali, sarebbe più giusto parlare di zattera, dato che erano quattro assi di legno in croce che bastavano a malapena per loro due.
E il vento del sud iniziò a soffiare fragoroso, i fiumi si ingrossarono, le acque del mare si presero il loro pedaggio sulle coste inermi, e intere città vennero spazzate via.
Quelle quattro assi messe in croce soltanto continuarono a galleggiare in balia delle onde, per nove giorni e nove notti, segno che una chance al genere umano era stata data, e che ogni rinnovamento porta con sé un briciolo di passato per farne tesoro.
Nessun lembo di terra pareva essere rimasto all’asciutto, e in un eterno mare senza approdo i due avevano ormai perso le speranze, quand’ecco apparire a nord uno scoglio: no, un isolotto, no, aspetta, è un’isola! Un isola alta 2500 metri, ovvero la cima del Monte Parnaso.
L’anziana coppia sbarcò sana e salva, e tra le alghe e il fango raggiunge i resti del santuario della dea Temi, dove fece un sacrificio a Zeus Padre, protettore dei fuggiaschi, supplicandolo di far rivivere il genere umano.
Evidentemente soddisfatto del risultato, Zeus pensò che poteva bastare, o forse no: ci vuole un pizzico di ingegno per evitare l’estinzione, mica è così facile: mandò così Ermes a far sapere loro che avrebbe esaudito la loro richiesta, e subito dopo Temi in persona, che si pronunciò con un ordine sibillino:
“Chinate il capo e gettatevi dietro le spalle le ossa di vostra madre!”
Pirra già si disperava: non avrebbe mai compiuto un gesto così empio, e oltretutto chissà dove si trovavano i resti delle rispettive madri dei due sposi, entrambe morte da anni. Ma Deucalione capì la sottile metafora: la Madre era la Terra, divinità primigenia, e le sue ossa erano le pietre sparse lungo le rive del fiume.
I due iniziarono a lanciare pietre alle loro spalle, ed ecco il primo, piccolo sasso tramutarsi in un bambino; un altro più grande divenne una fanciulla, un altro un vecchio, un altro ancora un guerriero: una nuova stirpe umana stava rifiorendo, grazie alla costanza e alla fede dei due vecchi sposi.
Da allora, la ggente (laos) e le pietre (laas, poi lithos) hanno termini quasi identici.
Tanto per dire, uno dei numerosi figli di Deucalione fu Elleno, padre di tutti i Greci.
Come moltissimi miti greci, però, ci troviamo in presenza di un post-scriptum inquietante dopo il canonico lieto fine: ricreata l’umanità, gli abitanti di Parnasso, città fondata da Parnaso, figlio del dio delle acque Poseidone, furono destati dagli ululati dei lupi e li seguirono di nuovo sulla cima del monte. Ed è proprio in onore dei lupi che fu fondata una nuova città, Licorea: la storia si ripeteva, e con essa tornavano gli orrendi misfatti dell’Arcadia di Licaone.
Il nuovo rito prevedeva il sacrificio di un fanciullo in onore di Zeus Liceo: le sue interiora sono unite a quelle di altri animali in una zuppa, proprio come il peccato originale, e servite a un gruppo di pastori: a chi toccano le interiora del fanciullo, subisce una metamorfosi spaventosa: inizia infatti a ululare e si tramuta in licantropo.
Dopo due giorni di idillio, anche Delfi va lasciata: ad maiora.
In questo caso i maiora sono le alte cime del Parnaso, a circa metà strada del nostro itinerario di oggi. Occorre pianificare con attenzione le altimetrie della giornata, dato che da queste parti non ci sono strade in orizzontale.
Massimo nel frattempo decide di proseguire verso il mare, lasciandoci in quattro. Provato nel fisico e nell’attrezzatura, preferisce i lidi balneari agli stazzi dell’entroterra, più possibilità di risolvere i problemi e di trovare alloggio. Lo rivedremo tra qualche giorno, di sicuro alla meta.
Lasciamo quindi con riluttanza gli ulivi ombrosi del camping Delphi, dopo un’abbondante colazione. I primi quattro chilometri di strada li conosciamo già, solo che ieri li abbiamo fatti senza carico. Superato per l’ultima volta l’enorme anfratto del santuario, ci si apre una strada lunga in salita che costeggia la vallata a destra. Il primo sudore inizia a colare.
Un tornante, poi un altro, un altro ancora: a un certo punto, in uno spiazzo polveroso dell’interminabile salita, notiamo una carcassa di un pick-up. Non ha più le ruote e giace battuto dal sole, in attesa di tornare di nuovo utile a qualcuno: eccoci qua.
Oltre alle solite foto di rito in cui mi arrampico su mezzi abbandonati in scenari rurali degradati, il pick-up ci offre dell’altro. Curiosando nel suo interno, infatti troviamo una latta di olio lubrificante, proprio quello che avevamo finito e che serve alla catena della bici di Fiorella. Guarda caso, c’è anche un vecchio pennello, e il pit stop è servito.
Il sole picchia, ma la quota e il vento rendono piacevole la scalata verso Arachova: le tre fanciulle macinano i tornanti con facilità. Un’ampia svolta occupata da un negozio di tappeti preannuncia l’ingresso in paese: il bianco della parete dell’edificio è quasi completamente sommerso dalle fantasie colorate e arabeggianti delle stoffe; accanto, una fonte di acqua fresca, con sopra una scritta che invita a bere – drink this water, is good for the stomach.
Arachova è un paesino ridente che gode evidentemente di un folto turismo invernale. L’impressione è di non trovarsi più nemmeno in Grecia – se non fosse per la valle petrosa e profondissima che dall’ombelico del mondo sprofonda verso il basso, e per i colori arsi dal sole, potrebbe essere un borgo appenninico.
E’ ancora relativamente presto, mezzogiorno circa, il caldo ha allentato la sua presa di fronte ai 900 metri di quota, così decidiamo di tentare l’impresa: la scalata del Monte Parnaso. La sua mole imponente ci aveva già accolto arrivando da Galaxidi, tra le ripide alture della zona, come ad avvertirci: se riuscite a evitare i cani, v’aspetto io, tranquilli.
Il farmacista del paese, Dimitris, ci sente parlare e ci avvicina rivolgendosi a noi in italiano: ha avuto una ragazza romana e ha studiato a Camerino. Lui sorride quando nota la mia spilletta sul cappello, “Partito Ciclista Italiano! Sembra proprio il simbolo del PCI!” Glielo regalo, poi gli chiediamo se c’è la possibilità di lasciare i nostri bagagli in un posto sicuro, e lui ci porta in un bar di suoi amici: dopo qualche frullato e rustici in quantità industriale (“Vedo la gente mangiare” era già diventato il mantra di Laura da Nafpaktos in poi), liberi dal peso polveroso e sudaticcio di due settimane di strada ci accingiamo a salire sul Parnaso. Unico vincolo: chiudono alle 18.30, sono 38 km di salita e discesa da completare entro quell’ora.
I primi tornanti di salita sono simili alla strada tra Delfi e Arachova: assolati, costanti, aridi.
Il ritmo si fa regolare, mettiamo in coppia il battito cardiaco con la pedalata. Passiamo un tunnel di cemento, dove facciamo una sosta approfittando dell’ombra: orino nel vuoto restituendo un po’ di liquidi alla secca sterpaglia della vallata.
Ancora qualche centinaio di metri e scolliniamo: il vento si fa più forte, un breve tratto in tortuosa discesa e ci ritroviamo in un altopiano sterminato. Pare l’Oklahoma, altro che Grecia.
La strada è un nastro dritto, il pianoro è chiuso da ogni lato da ripidi monti, qua e là bar e stazioni di servizio tipici delle soste di chi va in settimana bianca. E lì a destra, sempre le forme aguzze del Parnaso. Manca ancora un sacco. Ci fermiamo al Poliko cafè, un tipico bar di montagna di passaggio, veranda di legno e amari sullo scaffale dietro al bancone. I ragazzi che lo gestiscono ci riempiono le borracce con gentilezza discreta, il tempo di una pausa e si riparte.
Dopo qualche tentativo di tagliare la scalata per sterrati, appuriamo che le bici di Agnese e Fiorella non possono permettersi una salita sui sassi: si decide quindi di allungare per la strada asfaltata.
Nuova salita: si inerpica prima in maniera graduale, poi più decisa nel bosco. Il verde ci affoga, il silenzio ci finisce.
La sensazione di esserci dentro fino al collo è netta, i copertoni neanche fanno più rumore sull’asfalto, non ci sono macchine. Mancano solo satiri e ninfe, e nel frattempo la cima continua ad apparire e sparire a seconda delle curve della strada. Anche il verde si fa più intenso, e l’aria leggera. La scalata è catartica, e neanche troppo impegnativa.
Ancora un po’.
Agnese non ha il rampichino, e le pendenze si fanno troppo impegnative per la sua Orbea, così decide di tornare indietro al bar e aspettarci lì. Il vento si trasfigura, ulula, ci accompagna fino in cima.
Uno spiazzo di cemento, lo ski center, un’architettura molesta e sgradita agli dei.
E poco più su, ecco le rocce aguzze della cima.
LA cima.
Il tetto del nostro viaggio, la bandierina da piazzare, l’unico lembo di terre emerse dopo il diluvio universale. L’incarnazione stessa della poesia, la sintesi tra spirito apollineo e spirito dionisiaco, il luogo che tutto unisce e separa.
Il vento ulula ancora, noi facciamo sventolare una maglietta a un palo come vessillo dell’impresa.
E prendiamo qualche pietra, per lanciarcela alle spalle come nel mito della creazione, magari sperando in un’umanità futura migliore.
La discesa ci inebria di profumi e tornanti, i muscoli delle braccia si tendono mentre la quota cala e la temperatura risale. Tornati ad Arachova, riprendiamo i bagagli e ci fermiamo a scambiare qualche parola con un coppia barese di passaggio al bar.
Sono archeologi, e vengono in vacanza qui da dieci anni. Luigi ha lo sguardo vispo e i modi gentili, e sua moglie non è da meno: conoscono vita, miti, morte e miracoli della zona.
– Dovreste andare alla grotta delle Muse, la Corycian Cave, è qui vicino.
Maledette le scadenze e i programmi, tempo non ce n’è e ogni deviazione è una scelta che esclude altre possibilità. Ma è nei giochi del viaggio.
Al momento dei saluti, Luigi regala a Fiorella una copia del suo libro di liriche; uno di questi parla proprio di quanto i greci amino gli italiani. Prima di ripartire salutiamo anche Dimitris, appena ritornato alla sua farmacia pedalando con disinvoltura in MTB e sandali. Arachova è un altro luogo da chiamare casa, in cui restare, in cui tornare.
Ci scambiamo i contatti con lui, e lo salutiamo con la promessa di rivederci da qualche parte – qui, là, altrove, non importa – è un’altra tappa del Viaggio, un altro dono raccolto lungo la strada.
Ma il pomeriggio volge al termine, e noi abbiamo ancora 25 km da coprire – di discesa, certo, ma pur sempre 25.
Ciò che sappiamo per certo è che campeggi in zona non ce ne sono, e che dobbiamo ancora trovare un posto per la notte dalle parti del monastero di Ousios Loukas. Fortunatamente si scende, le scalate per oggi sono finite: una discesa lunga e gentile si inventa nuove prospettive per prolungare il nostro piacere. I pedali non servono più, se non per tenere l’equilibrio tra le ampie volute della strada, tutto ciò che dobbiamo fare è goderci il vento e il bianco scosceso dei monti dietro i quali tramonta il sole.
Il profumo della menta selvatica si mischia a quello del catrame, il fondo stradale è stato appena rifatto e sembra di scivolare in un autodromo di formula uno, senza attrito.
Arriviamo così a Distomo, un borgo tranquillo in fondo alla vallata, concludendo così una tappa praticamente perfetta – no stress, no problemi, tanta roba.
Nella piazza principale, anziani si affrottano su altri anziani ai tavolini dei bar, che sono disposti in maniera panoramica per godersi lo spettacolo del viavai della strada. E’ una città anziana di soli uomini ciccioni, le donne sono in casa, non esistono o si mimetizzano bene. Distomo stride per questi motivi con la popolazione giovanile e vivace di Arachova, che al confronto sembra quasi un centro Erasmus. E poi è la Marzabotto greca, come testimoniano i numerosi monumenti ai caduti di un ferocissimo massacro nazista.
Uno degli animali da tavolino ci chiama, parla un buon italiano: è un signore sulla sessantina, e ci dice di aver studiato giurisprudenza a Genova. L’amore dei greci per gli italiani comincia a delinearsi in una storia di emigrazione, formazione e ritorno.
Una fazza, una razza.
Ci consiglia un alberghetto nella piazza principale del paese, il Koutriaris: 15 euro a persona per un letto e un bagno, il campeggio non costa molto di meno.
Ci prendiamo una birra per festeggiare la tappa, e al momento di pagare il cameriere viene intercettato dall’anziano signore al tavolino vicino, che ci offre le consumazioni – inutili le proteste, il vecchio mette i soldi in mano al cameriere e brinda alla nostra.
Una fazza, una razza.
Dopo una passeggiata per le (tre) vie del paese, in cui i cani si contendono gli spazi coi gatti e con i parcheggi selvaggi, ceniamo in una tavola calda sotto l’albergo: la famiglia che la gestisce non è greca, lo capiamo dai lineamenti. La loro dignità silenziosa è percepibile da ogni minimo gesto, mentre ci portano piatti e bottiglie occupando anche le sedie dei tavoli vicini per la mancanza di spazio.
A mezzanotte, poi, quello che speravo di far passare in sordina torna puntuale a ricordarmi che invecchio: Fiorella, Laura e Agnese si sono organizzate per far arrivare la torta di compleanno a sorpresa, mobilitando tutto il paese.
“Come li festeggiate voi i compleanni qui, cosa mangiate?”, aveva chiesto Fiorella all’albergatore.
“mah… Souvlaki, pork”, aveva risposto lui, come se fosse la risposta più scontata del mondo. Nonostante questo, con un paio di telefonate era riuscito a rimediare una graziosa torta di cioccolato guarnita di tre topi di zucchero. Il corpo del reato era stato poi portato al ristoratore, che al momento giusto l’ha sfoderato.
Come non commuoversi? In 34 anni di vita non m’era mai capitata una cosa del genere.
La notte finisce nella movida, con un ouzo consumato tra gli arzilli signori nella vivace vita notturna di Distomo e i cani che ci seguono in cerca di coccole.
IL MONTE PARNASO E IL MITO DELLA CREAZIONE
Il Monte Parnaso supera i 2500 metri, e all’interno della frastagliata geologia greca si (imm)erge tra le nebbie oltre l’azzurro dello stretto di Corinto. Un posto oltre ogni umana comprensione come doveva esserlo tremila anni fa, non può che essere stato usato per ambientare il mito (uno dei miti) della Creazione. O meglio, del passaggio da un’epoca all’altra tramite la distruzione e la ricreazione del genere umano.
Dato che il lungo filo delle religioni umane, nella loro affannosa ricerca alla spiegazione del Perché ultimo e delle nostre paure, è tutto sommato lo stesso da cultura a cultura, in questa storia troveremo più d’una analogia con la tradizione biblica: come nell’Antico Testamento, infatti, all’origine di tutto c’è una razza umana degradata, delle divinità insoddisfatte dei loro pupazzetti, e soprattutto l’acqua come elemento purificatore: una bella lavata e via, si volta pagina.
E se nel caso della tradizione cristiana si trattò del fratricidio ad opera di Caino, anche qui c’entra un “agnello sacrificale” ucciso nella più totale fiducia verso il suo ospite, lo sventurato Nittimo.
Ma andiamo con ordine.
Il Caino di turno in questo caso è il figlio di Pelasgo, Licaone: ne abbiamo già parlato fugacemente po’ di giorni fa, ma ci trovavamo ancora in Lucania tra lupi e cacciatori: Licaone, come già il nome presagisce (lykos = lupo), aveva civilizzato l’Arcadia e istituito il culto di Zeus Liceo: quando però gli sacrificò un fanciullo, il dio si adirò. Niente umani, cribbio, sono indigesti.
Decise quindi di andare a controllare di persona per avere una prova diretta della sua empietà, ma per farlo ricorse a uno dei suoi travestimenti, assumendo le sembianze di un vecchio mendicante cencioso.
Avvolto nei laceri panni, si presentò così a Licaone chiedendogli ospitalità: il re lo accolse alla sua mensa, ma nella sua sfrontatezza ebbe l’ardire di servirgli come pasto le interiora del fanciullo Nittimo, miste a quelle di pecore e capre. Poi uno se lamenta di McDonald’s.
Ma Zeus non lo freghi tanto facilmente, ed ecco, la frittata è fatta: solo che al posto delle uova di una normale frittata caddero secchiate e secchiate d’acqua, senza posa, estenuanti e inesorabili. Tutto questo, non prima di aver tramutato lo scellerato re in un lupo, condannandolo a vagare senza patria in perpetuo esilio.
La pioggia continuava a tormentare le terre emerse, dal Peloponneso alla Tessaglia, dall’Epiro all’Eubea: Zeus era disgustato dall’intero genere umano, e con Licaone la goccia aveva letteralmente traboccare il vaso.
Un barlume di speranza fu però affidato all’unica coppia di umani che aveva fornito una sincera ospitalità a quel povero viandante, senza troppo badare al suo aspetto o curarsi chi fosse: il vecchio Deucalione – il Noè di turno, insomma – e sua moglie Pirra.
Su consiglio del Titano Prometeo i due costruirono un’arca – beh, l’arca era roba da pezzi grossi tipo Noè, qui niente trasporto animali, sarebbe più giusto parlare di zattera, dato che erano quattro assi di legno in croce che bastavano a malapena per loro due.
E il vento del sud iniziò a soffiare fragoroso, i fiumi si ingrossarono, le acque del mare si presero il loro pedaggio sulle coste inermi, e intere città vennero spazzate via.
Quelle quattro assi messe in croce soltanto continuarono a galleggiare in balia delle onde, per nove giorni e nove notti, segno che una chance al genere umano era stata data, e che ogni rinnovamento porta con sé un briciolo di passato per farne tesoro.
Nessun lembo di terra pareva essere rimasto all’asciutto, e in un eterno mare senza approdo i due avevano ormai perso le speranze, quand’ecco apparire a nord uno scoglio: no, un isolotto, no, aspetta, è un’isola! Un isola alta 2500 metri, ovvero la cima del Monte Parnaso.
L’anziana coppia sbarcò sana e salva, e tra le alghe e il fango raggiunge i resti del santuario della dea Temi, dove fece un sacrificio a Zeus Padre, protettore dei fuggiaschi, supplicandolo di far rivivere il genere umano.
Evidentemente soddisfatto del risultato, Zeus pensò che poteva bastare, o forse no: ci vuole un pizzico di ingegno per evitare l’estinzione, mica è così facile: mandò così Ermes a far sapere loro che avrebbe esaudito la loro richiesta, e subito dopo Temi in persona, che si pronunciò con un ordine sibillino:
“Chinate il capo e gettatevi dietro le spalle le ossa di vostra madre!”
Pirra già si disperava: non avrebbe mai compiuto un gesto così empio, e oltretutto chissà dove si trovavano i resti delle rispettive madri dei due sposi, entrambe morte da anni. Ma Deucalione capì la sottile metafora: la Madre era la Terra, divinità primigenia, e le sue ossa erano le pietre sparse lungo le rive del fiume.
I due iniziarono a lanciare pietre alle loro spalle, ed ecco il primo, piccolo sasso tramutarsi in un bambino; un altro più grande divenne una fanciulla, un altro un vecchio, un altro ancora un guerriero: una nuova stirpe umana stava rifiorendo, grazie alla costanza e alla fede dei due vecchi sposi.
Da allora, la ggente (laos) e le pietre (laas, poi lithos) hanno termini quasi identici.
Tanto per dire, uno dei numerosi figli di Deucalione fu Elleno, padre di tutti i Greci.
Come moltissimi miti greci, però, ci troviamo in presenza di un post-scriptum inquietante dopo il canonico lieto fine: ricreata l’umanità, gli abitanti di Parnasso, città fondata da Parnaso, figlio del dio delle acque Poseidone, furono destati dagli ululati dei lupi e li seguirono di nuovo sulla cima del monte. Ed è proprio in onore dei lupi che fu fondata una nuova città, Licorea: la storia si ripeteva, e con essa tornavano gli orrendi misfatti dell’Arcadia di Licaone.
Il nuovo rito prevedeva il sacrificio di un fanciullo in onore di Zeus Liceo: le sue interiora sono unite a quelle di altri animali in una zuppa, proprio come il peccato originale, e servite a un gruppo di pastori: a chi toccano le interiora del fanciullo, subisce una metamorfosi spaventosa: inizia infatti a ululare e si tramuta in licantropo.