Distomo – Tebe
La mattinata di oggi è calda. Calda d’un caldo afoso e senza vento che risulta ancor meno sopportabile dopo il fresco del Monte Parnaso di ieri. Distomo è proprio al centro di una conca tra i monti, dominata dal complesso del Monte Elicona: forme più asciutte, più aride e minacciose – o forse ci sembra così solo a causa della giornata.
Agnese non se la sente di affrontare nuove salite, e preferisce svalicare i monti con l’autobus. Chiediamo al nostro amico albergatore, che col suo scarso inglese non riesce a compensare il nostro scarso greco: chiama in aiuto quindi suo fratello, che si prodiga per darci tutte le informazioni di orari e coincidenze.
Decidiamo di partire più tardi e di aspettare insieme ad Agnese l’arrivo del bus, nel frattempo le ore si sciolgono al sole e il caldo delle 11 ci trova ancora in piazza davanti all’hotel. Passiamo il tempo con Lia, la nipote dell’albergatore, una curiosa ragazzina che sta studiando inglese.
“What’s your name?”. le chiede sillabando Fiorella.
Lei è contenta e lusingata delle attenzioni di quegli strani adulti stranieri, sorride, si porta l’indice sotto il mento, gira su stessa, guarda lontano in cerca delle parole, vorrebbe dire un sacco di cose ma in inglese non sa come. Riesce a farci capire, anche grazie all’aiuto del fratello dell’albergatore, che anche a lei piacciono le bici e che quella graziella lì in fondo alla hall è sua.
Poi si chiude con il computer della reception e con i video di Katy Perry. Segue il motivo e il suono delle parole, rapita dai ritmi pop, e ci dimentica totalmente.
Agnese prende il bus per Leivadia, da lì sono 40 km di pianura per Tebe e ci sono molte coincidenze, l’importante ora è uscire dai monti. Noi invece ci avviamo verso il Monastero di Ossios Loukas, culla del bizantino. I 10 km che ci separano da lì sono funestati da un paio di salite nervose e battute dal sole, la strada punteggiata di ulivi è spezzata soltanto dal paesino di Steiri, la cui piazza ostenta il gemellaggio con la città pugliese di Trani, in nome della figura di San Nicola, “il pelegrino di Trani”.
Arriviamo così a Ousios Loukas, eremo del Beato o Benedetto (“Ousios”) San Luca: un complesso ortodosso a mattoncini rossi, la cupola tonda che ammicca a oriente spezzando la monotonia degli ulivi. Sullo sfondo, il Monte Elicona detta il profilo della vallata.
Tutto è silente, tutto sfrigola di calore, cicale comprese.
Dopo aver coperto le nostre nudità ciclistiche per rispettare la sacralità del luogo e aver regalato al sudore altri centimetri di pelle, entriamo nel santuario bizantino. Le espressioni severe e accigliate delle icone ci accolgono, gli interni delle mura antiche ci donano un po’ di fresco. Qui giungono i pellegrini per addormentarsi accanto alla tomba del santo, nella speranza del miracolo del myron, una sorta di olio profumato che si crede debba stillare la sua sepoltura.
Mangiamo un boccone all’ombra del chiostro, due barrette di cereali, miele e mandorle, e ripartiamo. La saggezza di Fiorella blocca i miei propositi di svalicare alle pendici dell’Elicona, e meno male che le dò ascolto. Sono le 14, il sole è a picco e l’ossigeno è un ricordo lontano: decidiamo quindi di tornare sui nostri passi fino a Distomo e da lì prendere la nazionale, che supera i monti con pendenze più lievi.
Arriviamo così per una strada brutta ma sicura fino a Livadeia, cittadina moderna rinfrescata dalle acque di una fonte che sfocia subito nel Cefiso, le Pegès Kruas: qui ci aspetta Agnese già da qualche ora, nell’umido delle cascatelle d’acqua eliconia.
IL MONTE ELICONA E LE MUSE
Tra le sue numerose avventure extraconiugali, Zeus si concesse nove notti in compagnia di Mnemosyne, la Memoria: da essa nacquero altrettante dee, una per notte, protettrici delle Arti e delle Scienze. Delle ninfe dei monti che venivano in aiuto di chi le invocava, in cerca d’ispirazione, che passavano il tempo a danzare e cantare per valli e grotte, diventendosi a raccontare le origini del mondo o le storie di eroi e dei, di un tempo senza tempo in cui al posto delle bici c’erano centauri e satiri.
Clio, “colei che rende celebre”, ovvero la Storia, con la sua pergamena srotolata in mano; Euterpe, “colei che rallegra”, ovvero la Poesia lirica, suonatrice di flauto o tibie;
Talia, “colei che è festiva”, ovvero la Commedia, raffigurata sempre con una maschera comica o una ghirlanda d’edera;
Melpomene, “colei che canta”, ovvero la Tragedia: per lei una maschera tragica, una spada e il bastone di Eracle;
Tersicore, “colei che danza”, ovvero la Lirica corale e la danza, sempre con la sua lira in mano;
Erato, “colei che provoca desiderio”, ovvero la Poesia Amorosa, raffigurata con un rotolo;
Polimnia, “colei che ha molti inni”, ovvero la Danza rituale e il canto sacro, o il Mimo;
Urania, “colei che è celeste”, ovvero l’Astronomia, col suo globo celeste e l’indice puntato al cielo (ouranòs);
Calliope, “colei che ha una bella voce”, ovvero l’Elegia, con la sua tavoletta e stilo.
Un’altra camminata, rispetto alle Spice girls.
Comunque sia, le nove Muse sono sacre ad Apollo, che quando non dava oracoli lì dietro l’angolo a Delfi si dilettava in loro compagnia, invitandole spesse alle feste degli dei olimpici affinché allietassero i banchetti coi loro canti. Le Muse erano superiori nel canto a qualsiasi essere umano, dato che conoscevano alla perfezione passato, presente e futuro: cantarono della guerra tra Dei e Titani, compiansero la morte del divo Achille, presenziarono alle nozze di Cadmo e Armonia così come a quelle di Teti e Peleo. Stracciarono le Sirene e le Pieridi in una gara di canto, e per punizione strapparono loro le ali relegandole al mondo marino. Fu sempre Apollo a convincerle ad abbandonare l’Elicona e a trasferirsi a Delfi, sede del suo oracolo.
E ancora oggi ispirano cantori di ogni età e genere, come nel caso di Franco Fosca, busker dylaniano e compagno di schitarrate scomparso tre anni fa.
Preghiera
Me lo merito l’amore
L’amore di Orfeo per Euridice
lo stesso di Andromeda e Perseo
l’amore di Didone per Enea
Padre Zeus, Madre Era
Muse che abitate l’Elicona
dei del mare, devoti a Poseidone
ninfe e satiri, venite tutti a schiera ad ascoltare stasera
questa mia preghiera
Se sono un uomo di valore
ho il diritto che mi scaldi il cuore
una driade dalla pelle nera
o bianco latte, o gialla come il limone
Padre Zeus, Madre Era,
Artemide, vergine cacciatrice
Atena, Pallade guerrier
Ermes, araldo ingannatore
sull’Olimpo che si dice?
sono un uomo di valore?
Me lo merito l’amore
l’amore di Penelope e Odisseo
l’attrazione per le Pleiadi di Orione
l’amore del dio Pan per Galatea
Padre Zeus, Madre Era
Naiadi di Itaca petrosa
Cadmo e Armonia la sua sposa
demoni, sileni, grazie e moire
datemi questa rosa
se sono un uomo di valore
Me lo merito l’amore
ho il diritto di cogliere quel fiore
una giovane Nereide mora
o rossa, o bionda come il sole
Padre Zeus, Madre Era
bellissima, dolcissima Afrodite
Dioniso, amico della vite
Apollo, Febo incantatore
amici dei, che dite?
Me lo merito l’amore?
(Franco Fosca, Preghiera)
Leivadia / Tebe
I fisici sono provati, ci beviamo una birra al bar pensando a come concludere la tappa: le tre ragazze decidono di prendere ancora un bus fino a Tebe, io ho bisogno di correre un po’ in pianura: la birra mi ha sbloccato la sonnolenza e la bassa pressione di oggi, meglio tardi che mai.
Il problema è che sono le sei di pomeriggio, e che mancano ancora 45 km a Tebe: niente più dislivelli, solo un forte vento contrario. Mi avvio lasciando loro in attesa al terminal.
Le gambe iniziano a spingere, la giornata morente concede finalmente un po’ di respiro dal sole, se tengo un buon ritmo ce la posso fare prima del tramonto. Ma niente pause.
Raggiungo ritmo regolare fino a mantenerlo col rapporto più pesante, Eolo ce l’ha con me, mi soffia in faccia quasi a distogliermi da Tebe. La strada è un’arteria a scorrimento veloce, numerosi camion mi passano accanto, ma la corsia di emergenza è ampia e posso pedalare in sicurezza.
Il consueto mantra della pianura si verifica ancora una volta: la pedalata si fa ritmica, il tempo viene scandito dai giri di pedale, la schiena si inclina in posizione corsaiola.
Odori di putrefazione e di agricoltura intensiva. Poche colline a destra, orizzonte piatto a sinistra.
Accosto in prossimità di un chiosco di frutta per regolare il sellino, vengo passato da un bus: non riesco a vedere attraverso i vetri fumé, ma ci sono senz’altro loro dentro.
Saperlo mi dà nuova energia, e accelero il ritmo sorpassando il bus alla sua fermata: riesco a tenerlo dietro un po’, poi appena gli è possibile mi passa con un colpo di clackson garbato, come a dire occhio, passo.
I chilometri si sgranano come in un rosario, ogni tanto mi volto indietro a controllare l’altezza del sole che mi muore alle spalle, il ritmo è sempre regolare, il sudore mi cola tra occhi e naso.
Primi cartelli di Tebe: entro strisciando nel bar di un autogrill, se non bevo un litro d’acqua e un succo di frutta collasso. Passo un cinque minuti buoni a placare il ritmo del battito cardiaco, osservato dal sorriso bonario del benzinaio che ha tirato fuori le bottiglie dal frigo ghiacciato.
Tebe, nuovo cambio di scenario. L’ingresso è triste e maliconico, casermoni e botteghe fatiscenti.
Zingarelle vestite di nero si aggirano nei vicoli tra risate e salti. Sguardi perplessi degli avventori nei bar al mio passaggio.
Lieve salita verso il centro, strada a due corsie con aiuola in mezzo. Scritte di vernice sbiadita sui muri bianchi. Un locale diroccato, pieno di calcinacci, reca la scritta “poleitai” – vendesi. Il cemento ha vinto, qui.
Tebe è una non città in cui il presente ha sepolto il passato, l’unica area archeologica che incontro è semicoperta da edifici brutti e abbandonati, rimane il perimetro delle mura di qualche edificio. Sembra quasi che la maledizione arcaica di Edipo si sia perpetrata in veste edilizia.
Arrivo alla statua di Epaminonda, da lì inizia un’isola pedonale: percorro la rambla di Tebe in cerca della stanza presa dalle fanciulle, arrivate una quarantina di minuti prima di me.
L’Hotel Niobe – un nome un programma – ci accoglie con prezzi stracciati e stanze confortevoli.
La sera, cerchiamo un po’ di verità e di folklore nella bolgia di adolescenti senza passato che affollano i bar: frastuono e movida senza controllo, inconsapevole, innocente e disperata.
Le donne tebane hanno un fascino mai incontrato prima in Grecia: sguardo fiero e portamento elegante, tratti pronunciati e occhi scuri. Sono loro forse l’ultimo legame col passato di questa terra.
Una ragazza in lacrime ci ferma, chiedendoci in inglese stentato di poter fare una chiamata. Agnese le porge il telefono, lei ringrazia, compone un numero e scambia qualche parola – probabilmente dice dove si trova e chiede di essere venuta a prendere. Le chiediamo se vuole che restiamo con lei, se vuole un po’ d’acqua, se possiamo fare qualcosa. Lei ringrazia, dice di no, prosegue il suo pianto sommesso.
Dopo aver chiesto qua e là senza molto successo – è sabato sera, è tutto pieno nei locali alla moda – un’insegna lercia e consunta attira la nostra attenzione: defilata dalle luci scintillanti del resto dell’isola pedonale, una sorta di osteria tenta invano di illuminare lo spazio all’aperto davanti a sé, ma i tavolini occupati da anziani intenti a giocare a carte godono di una luce fioca e smorta.
Il gestore del posto ci viene incontro sorridente: stazza grossa e aspetto gioviale, ci invita a sederci all’interno per bere qualcosa. Gli chiediamo se si può anche mangiare, lui sforzandosi di trovare le parole giuste ci elenca una serie di cose. Niente menu, lasciate a fare a me, pare dirci.
Dal tavolo vicino, quattro pensionati mezzo avvelenati gonfi di vino. Capigliature rade e unte, gesti improvvisi nella frenesia della partita a carte, ogni tanto un asso calato con enfasi rimbomba sui tavolini metallici.
L’oste ritorna dalle cucine con un vassoio di sardine fritte, insalata greca, fave e fagioli giganti. E con lo tzatziki più ricco d’aglio che la storia ricordi.
Il vino di retsina e il suo sapore di terra accompagnano il tutto. E rieccoci ancora una volta a casa.
I SETTE CONTRO TEBE
Per il mito di oggi dobbiamo ricorrere a un flash-forward: se è vero che la storia della città di Tebe è legata alla figura di Edipo, è altrettanto vero che le origini della sua storia si svolgono a una cinquantina di chilometri da qui, alle pendici del Monte Citerone: guarda caso, sarà la nostra prossima meta lungo la strada per Atene, quindi ancora una volta dobbiamo invertire l’ordine cronologico e quello geografico. Come i gamberi, facciamo. Comincio a pensare che ho sbagliato tutto, e che avremmo dovuto fare il viaggio al contrario.
E così, la Tebe che narriamo oggi è quella di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che avevano l’accordo di regnare sulla città ad anni alterni. Solo che il potere logora chi ce l’ha, ed Eteocle, salito sul trono per primo, allo scadere dell’anno ci si era così affezionato che fece di tutto per conservare la poltrona, anche accusare il fratello di incapacia e malvagità per esiliarlo dalla città.
E fu così che Polinice si ritrovò esule e senza una moglie.
Nello stesso periodo, Calidonio – sì, quella del cinghiale di qualche giorno fa, solo che al posto del re Eneo che aveva indetto la celebre battuta di caccia c’erano i figli – si consumava un copione più o meno simile: Tideo aveva ucciso per tragica fatalità il fratello Melanippo, e per questo i Calidoni lo avevano esiliato, non credendo alla sua buona fede.
E fu così che Tideo si ritrovò esule e senza una moglie.
Il Caso vuole che ad Argo, nel frattempo, il re Adrasto cercava un buon partito per le sue due bellissime figlie Egia e Deipile, e dato che l’insistenza dei giovani principi delle varie poleis era tanta, per non offendere nessuno si era rivolto all’oracolo di Delfi. E quello, sempre burlone e colorito, gli aveva risposto così: “Aggioga a un carro a due ruote il cinghiale e il leone che combattono nel tuo palazzo”.
E Guarda Caso, l’emblema di Tebe è il leone, quello di Calidonio il cinghiale, e i simboli svettavano sugli scudi dei due eroi esuli. Ma chi l’avrebbe mai detto! Ora qua tutti a parlare per enigmi! Non bastava la Sfinge!
Visto che le figlie erano abbastanza, Adrasto per non far litigare nessuno diede Egia a Polinice e Deipile a Tideo, con la promessa di reinsediare gli eroi sui rispettivi regni. E decise di iniziare proprio con Tebe – così, giusto perché era di strada.
A fianco dei tre – il re smerciafiglie e i due esuli – furono scelti altri quattro eroi per la riconquista: Capaneo, Ippomedonte, Partenopeo, Anfiarao, unico a dimostrarsi scettico (“Qua ci lasciamo le penne”, si disse).
Ed ecco qui i Sette contro Tebe: la spedizione giunse al Citerone, e mandò in ambasceria Tideo a pretendere la deposizione di Eteocle, che aveva esiliato il fratello. Al suo rifiuto, sfidò a duello i capi tebani battendoli tutti, e mettendoli in fuga: l’assedio era iniziato.
I sette si posero davanti alle sette porte di Tebe, e avrebbero senz’altro vinto se non fosse stato per una profezia – l’ennesima – di Tiresia. L’indovino cieco aveva infatti predetto che Tebe sarebbe riusciuta vittoriosa se un principe di sangue reale si fosse offerto in sacrificio ad Ares, e così fece Meneceo, gettandosi generosamente dalle mura.
Il suo gran tonfo segnò il capovolgimento delle parti: aiutati da Zeus, in poco tempo, i tebani lasciarono stecchiti nella polvere quattro dei sette eroi. A quel punto, per evitare ulteriore spargimento di sangue e dirimere la questione, Polinice sfidò a duello il fratello Eteocle: e mai più vero fu il detto fratelli coltelli, dato che i due si ferirono mortalmente a vicenda.
Tebe passò infine allo zio dei due, Creonte, che scacciò gli Argivi rimasti ad assediare: Anfiarao si diede alla fuga sul suo carro, ma Zeus gli aprì una voragine davanti con la sua folgore, precipitandolo vivo tra i morti dell’Ade, un po’ come Olimpia Pamphili nella diceria popolare romanesca.
Ma da dove deriva tanta sfiga?
Una ragione c’è, e come al solito le colpe dei padri ricadono sui figli. Eteocle e Polinice avevano la sfiga primigenia, quella colpa innocente del loro genitore Edipo, e di una profezia tanto infame e sadica da avverarsi punto per punto. Ma del passato parleremo domani.