Gallinaro / Castel di Sangro
Il mattino è umido, e la quota guadagnata ieri comincia a farsi sentire. E si fa sentire anche l’amaro del dopocena di ieri sera.
La tappa di oggi affronta gli Appennini, si svalica in Abruzzo attraverso il passo di Forca d’Acero, per poi ridiscendere nella Val di Sangro, secondo fiume lungo il quale si appoggiava la Gustav, risalire per Barrea e infine svalicare di nuovo in direzione Castel di Sangro.
Decidiamo di fare colazione direttamente a San Donato, affrontando i primi 5 km di salita a stomaco vuoto. “Fa male al cuore”, commenta Claudia.
Giunti in paese decidiamo quindi di compensare i nostri rispettivi affaticamenti cardiaci con un congruo apporto di zuccheri e caffeina (tre cornetti a testa e svariati caffè): avendo consumato praticamente tutte le scorte del bar della piazza centrale, Giancarlo senza dire nulla si alza dal tavolo e si allontana, per poi ricomparire qualche minuto dopo con una intera crostata fresca di forno. Applauso generale.
San Donato è un borgo di pietra addossato sul costone dei rilievi che separano la Ciociaria dal Parco Nazionale d’Abruzzo, pochi edifici radunati attorno a un campanile che domina tutta la Val di Comino ancora affogata nella bruma mattutina. In lontananza, vediamo le alture del Menfa attraversate ieri attraverso il tracciolino che si riversa nella valle come fosse un recipiente, e più in là ancora Montecassino.
Al tavolino accanto anziani leggono il giornale, qualcuno ha già un bicchiere di vino mezzo pieno, commentano la quotidianità e ci osservano curiosi. Scambiamo qualche parola con alcuni di loro, quando uno viene a sapere che siamo diretti verso Forca d’Acero ci dice di essere il gestore del rifugio che si trova qualche tornante prima del valico; quando poi il discorso finisce sulla Linea Gustav e sui luoghi di guerra, se ne esce gioviale con un “Almeno con la dittatura c’era ordine!”
Passiamo oltre, che è meglio.
La salita verso Forca d’Acero, più volte tappa del Giro, è una strada meravigliosa, una sinfonia di tornanti snodati in un bosco di conifere che lascia spazio a squarci di vallata sempre più ampi, rocce e bovini sparsi a rompere la monotonia dei pascoli, geometrie che sfidano la pendenza. È una scalata solenne e lenta, da assaporare. Valerio, che dopo la tappa di ieri e la scalata di Montecassino pensava di abbandonare la compagnia, ha ormai preso il passo e vinto il fiato corto del fumatore, e con lentezza inesorabile guadagna la meta.
Claudia nel frattempo fa sosta al rifugio Duca d’Abruzzi, a circa 2 km dal passo: qui ha modo di scambiare qualche parola con gli avventori, e le viene confermata l’opinione ricevuta prima a San Donato: in questa zona fascismo significava lavoro per gli abitanti della zona, mentre con la Liberazione gli americani li lasciarono abbandonati sé stessi. Allo stesso tempo, però, il ragazzo dietro il bancone le racconta della deportazione in Sicilia di sua nonna, con motivazioni mai chiarite.
Gli ultimi tornanti ci lasciano esposti alle raffiche di vento fresco dei 1538m di quota, un ultimo sforzo e il valico di Forca d’Acero è guadagnato. Sacche di neve colorano ancora di bianco il bosco di maggio attorno al passo, un cagnone bianco e malandato fa la guardia alle soglie dell’Abruzzo come una lupa dantesca, e si gode le coccole e gli avanzi di cibo offerti dai clienti della trattoria.
Pranzo a base di scamorze, vino e salsicce consumato sulle panche di legno a bordo strada in compagnia di un gruppo di motociclisti. Un chilometro di serpentine attraverso un maestoso bosco di aceri, ancora sacche di neve che spezzano il rosso del terreno, poi la discesa verso la Val di Sangro: ventosa, intensa, rapida. Il versante ombroso dei monti ci regala la vista dall’alto di Opi, cittadina arroccata sulle rocce il cui profilo ricorda la forma di una bara: sembra infatti che anticamente la zona su cui sorge fosse adibita a cimitero per gli appestati, e sul paese è rimasta una fama negativa che neanche i ritratti di Escher hanno saputo togliere – sì, Escher è stato a lungo in Abruzzo da queste parti, e di lui esistono illustrazioni e bozzetti di Opi, Scanno e altri paesi vicini. A proposito, la famosa foto di Cartier Bresson che ritrae un ciclista in discesa non è stata scattata nei vicoli di Montmartre come potrebbe sembrare, ma in quelli di Scanno.
Da qui in poi seguiremo il corso della Statale 83 in leggera discesa, accompagnando il corso del Sangro fino alla sua confluenza nel lago di Barrea. Sorpassata la Camosciara, all’altezza di Villetta Barrea la compagnia si divide, e mentre Giancarlo e Valerio proseguono lungo il lago in direzione Castel di Sangro, gli altri quattro scelgono una deviazione per Civitella Alfedena, ognuno spinto da motivazioni proprie, tutte nobili: io e Daniele abbiamo un appuntamento con la signora Maria, civitellese DOC che ha acconsentito a condividere con noi qualche testimonianza e racconto di guerra in Val di Sangro; Claudia per vedere l’area lupi del Parco; Emiliano per farsi un paio di birre pomeridiane.
Civitella Alfedena è una manciata di casette di pietra bianca addossate con eleganza sul dorso dei monti della Camosciara, una figura dal profilo inconfondibile in cui l’opera umana e i manufatti della natura si fondono in maniera armonica. La valle che essa domina, in cui un rigonfiamento controllato del Sangro ha formato il lago di Barrea, è stata teatro di varie azioni belliche sulla Gustav, e in paese si racconta ancora oggi di un tratturo in quota dove è stato abbandonato un carro armato tedesco. Pia e Valerio, genitori di Chiara, mi attendono in piazza per accompagnarmi dalla signora Maria per l’intervista.
È originaria di Civitella?
“Io sì, so’ nata qui, proprio a questo vicolo qui, poi mi sono sposata e sempre vissuto qui… sol a 14 anni sono andata a Milano per ragioni di lavoro, però sono sempre stata qui, il paese nativo che mi chiama.”
E qui la guerra c’è stata?
“I tedeschi so’ venuti a settembre, […] ma noi non sapevamo niente… non sapevano chi erano i tedeschi, ma sono venuti così incattiviti… dal primo giorno so’ cominciati a andà nelle stalle a prende galline, quello che ci trovavano. […] poi mano mano, non lo so a che mese hanno cominciato a sfollare Barrea… Barrea l’hanno sfollata e so’ venuti qui tanti barreani. Chi c’aveva la casa dalle parti loro, so’ venuti qui.”
Il fronte era più giù?
“Il fronte l’hanno messo l’hanno messo tra qui e le parti dopo di Barrea… […] sul valico verso Alfedena. Qui era tutto pronto, hanno messo tutte capanne per andare a Villetta, i nascondigli. E non c’era questa strada, c’era la strada mulattiera allora, in mezzo al bosco. Era una strada che ci passavano solo con gli animali, e hanno fatto tutti i nascondigli, tutte capanne ficcate sotto la terra. Poi a noi ci hanno sfollato prima di Natale. Ma prima di sfollare siamo stati… buttavano le bombe. Stavamo nascosti in questa grotta qui sotto la casa del professor Papa, cè una grotta […] Tutta Civitella insaccata lì dall mattina alla sera, vi giuro… con la paura che bombardavano, uscivano da qui gli aerei, si abbassavano. Da qui, silenziosi, non si facevano manco sentire, cominciavano a buttà bombe.“
Ci sono state case distrutte?
“Case distrutte no, però hanno buttato parecchie bombe, in campagna parecchie, ancora ci stanno. Poi ci hanno sfollato, de sera ce venivano a caccià de casa, la notte. Sfasciavano la porta e entravano. E ci caricavano lì sotto alla piazzetta, coi camion grossi, coperti, ci buttavano come i sacchi. E ogni sera, ogni due tre sere arrivava il camioncino e ci portava, e cominciavano a scaricarci da Pescasseroli, e poi mano mano Venere, Ortucchio, San Sebastiano, Gioia Vecchio, tutti da quella parte lì verso Pescina…Mamma, un ricordo brutto, guarda. “
E invece l’arrivo deglI Alleati?
“A giugno, so’ arrivati gli Alleati. Allora, quando quegli altri hanno capito che la guerra era persa, l’ultimo giorno hanno fatto saltare tutti i ponti, il ponte di Villetta, il ponte di Civitella, quello di Barrea.”
All’epoca già c’era il ponte sul lago?
No, il lago no. Il lago è nato dopo il ‘50, il ‘55, ‘56. C’era il ponte che è sopra il fiume. […] C’avevano buttato giù tutti i ponti, non si poteva passare più.”
E chi è arrivato qui, gli inglesi?
“Qui gli americani. “
Che atteggiamento avevano?
“Io mo’ sti americani non me li ricordo, ricordo solo che quando siamo tornati qui a Civitella da Pescasseroli prima di tutto abbiamo trovato le case senza niente, rotte tutte le porte l’erba così grande… all’epoca a settembre qui si faceva tanta agricoltura, e avevano raccolto tutto. Le case era piene di cacca. E allora poi loro prendevano i muli, addove li trovavano, e li portavano addove c’ha la pizzeria Corrado, e andavano per le case, prendevano tutti i muli, poi li portavano a bere l’acqua, e quelli se gonfiavano, morivano. […] Se gonfiavano, crepavano, e li buttavano tutti qui dietro, era un cimitero di muli… la puzza arrivava chissà dove. Questo sempre i tedeschi. Questo avveniva perché il paese era pieno di agricoltura, pieno de pecore, capre, allora so’ arrivati i tedeschi, ed è tornato quello che guardava ‘ste mucche, e gli hanno tolto tutte le mucche, e lui piangeva… e l’hanno portate al casone di fronte alla Camosciara, e l’hanno tenute parecchi giorni e poi l’hanno caricate.”
Ma invece partigiani e fascisti qui non sono mai passati?
No, qui partigiani no, a parte quello di Barrea. Il farmacista, ci hanno trovato le armi qui, e poi si è andato a nascondere
poi ci hanno fatto la spia, l
l’hanno portato al cimitero di Villetta, l’hanno tenuto parecchi giorni, e poi l’hanno fucilato. E ci hanno detto, come la vuoi la morte? La vuoi guardare? No, la voglio guardare, ha detto.
Abbiamo avuto il tempo di nascondere qualche cosa
hanno mangiato, loro e i tedeschi. Non se trovava più niente.
Della storia del carro armato tedesco che mi era stata raccontata la signora Maria non è al corrente:
“No, questo non lo so, So soltanto che i tedeschi c’avevano dei cavalli… e allora quando stavamo a Pescasseroli che la guerra era finita, stavamo in mezzo alla strada e loro passavano co questi cavalli, grossi, e c’avevo una mia sorella che era piccolina e era scappata in mezzo alla strada e la stavano a ammazzare…sì, a calpestarla…l’abbiamo vista brutta la guerra, perché poi quando siamo tornati non c’era niente niente”
Di morti in paese non ce ne sono stati molti, ma lei li ricorda tutti. Ancora una volta la percezione dei fatti varia di vallata in vallata.
Dopo esserci ricongiunti a Emiliano e Claudia, lasciamo il paese attraverso il ponte sul lago in direzione Barrea. La luce calda del pomeriggio illumina l’estremità della vallata e gli ultimi raggi di sole prima del tramonto accompagnano la nostra ultima, breve salita – uno scherzo rispetto a Forca d’Acero – prima di arrivare ad Alfedena con qualche tornante in discesa.
Percorriamo in grande slancio il rettilineo alberato che congiunge Alfedena a Castel di Sangro, fendendo la pianura a cavallo tra Abruzzo e Molise.
Giunti alla locanda “Le Frattocchie”, troviamo Giancarlo e Valerio addormentati nel letto matrimoniale di una delle due stanze, cogliendoli sul fatto come amanti clandestini.
La serata si conclude con l’eccellente cucina locale che compensa gli sforzi della giornata, a base di cazzarielli e fagioli (sì, si chiamano proprio così e sono squisiti).