Hellevoetsluis / Westenschouwen
Zeeland: viva la diga!
Notte umida e piovosa, che ha messo a dura prova gli strati protettivi tra noi e il vento.
Dopo esserci informati su un bunker nazista poco distante che non visiteremo mai, lasciamo il De Quack per cimentarci con la prima delle quattro dighe che si frappongono tra noi e il confine belga – la Dammenweg.
Appena ci inoltriamo sul mostro di cemento, capisco che il dio dei ciclisti ha risparmiato le salite agli olandesi solamente per affibbiare loro in cambio il vento.
E noi ovviamente ce l’abbiamo dritto in faccia.
Le raffiche violentissime rendono difficoltoso qualsiasi movimento, e la ruota anteriore sbanda come un timone nel mare mosso.
Si procede per circa dieci chilometri al rallentatore, appaiati, quasi fosse un film muto anni Venti. Un’auto della polizia ci chiede strada.
Arriviamo finalmente alla fine della diga, e superiamo un ballatoio metallico sopra la chiusa che minaccia l’apertura proprio durante il nostro passaggio, per fare strada a una nave in arrivo.
Stellendam saluta il nostro passaggio con le sue pale eoliche vorticose, Havenford con la fuga scomposta dei polli sullo sterrato. Qui le case hanno saloni completamente visibili dall’esterno, grazie a delle enormi vetrate, e i giardini sono curati in ogni minimo dettaglio. Pedaliamo con la riverenza di un toro in un negozio di cristalli.
La marcia viene sovente interrotta dai bisogni fisiologici di Fabio, che si appella al diritto di piscio: questa tradizione si consoliderà nei giorni a venire, rendendo necessario il solo urlo “Dirittooooooooo” per provocare l’arresto dell’altro, e magari anche l’incrocio dei flussi per solidarietà.
Giungiamo così a Ouddorp, grazioso centro di casette orbitanti attorno a un campanile, dove dei ciclisti assistono incuriositi al nostro ingresso. Ci fermiamo davanti alla PizzAria “Shalom”, curioso esempio di commistione inter-religiosa, inter-culturale e inter-culinaria costruita all’ombra dello Stereotipo e dell’Errore Ortografico.
Dopo una breve pausa, lasciamo Ouddorp per una ciclabile nei campi in cui una cicciona insegue le proprie capre emettendo versi poco rassicuranti: non appena ci vede, si distoglie dalla sua occupazione e ci saluta sorridendo.
Subito dopo ci sorprende la furia degli elementi: pioggia, tuoni, secchiate d’acqua, occhi contratti e visibilità impedita… in pratica, 10 minuti di lavaggio, centrifuga, e asciugatura al violento vento del Mare del Nord.
Ci fermiamo a leggere su un pannello informativo la storia di 7 piloti della RAF partiti in missione di bombardamento su Lipsia, uno dei quali fu abbattuto al ritorno nei cieli olandesi e precipitò in mare; l’aereo non fu mai ritrovato, mentre il Generale Roe fu ritrovato sulle sponde di Ouddorp. Tutto questo, per vantare e pubblicizzare il fatto che questo piccolo borgo lo ospita ancora nel suo cimitero, e per accampare una sorta di diritti storico-turistici su un cadaverone volante.
I nostri capi puliti, insieme alle bici e ciò che resta dopo la strizzata, si ritrovano sul bordo del mare, a fianco di un pittoresco porticciolo che ci indica il proseguimento della ciclabile: quello che prima era stato un nastro d’asfalto ben ordinato, per 4/5 km si trasforma in una striscetta di terra e sassi appoggiata alla meno peggio sulla cresta di un terrapieno, a sua volta stretto tra un mare in tempesta e un campo dove i fili d’erba sono costretti a danzare dalle raffiche continue.
Per una ventina di minuti non sento neanche i miei pensieri.
Dopo lavaggio e risciacquo, tocca all’operazione-tempra: pioggia, vento, sole, sabbia, alternati a rotazione; continuiamo così per ciclabili deserte nell’umidità penetrante, completando quel processo di simbiosi col paesaggio cominciato qualche chilometro prima. Le nuvole sembrano voler esercitare una pressione sulla nostra andatura, come a dire, guardate che noi stiamo quassù.
Ci fermiamo in prossimità di un sottopassaggio per una pisciata, invocando il diritto. Rassicurato dalla desolazione del luogo, che affonda lento nel suo verde intenso, Fabio dà le spalle alla strada per girarsi verso un parcheggio di camper. Uno di essi, parcheggiato pochi metri più in là, decide di fargli notare con gli abbaglianti che il suo spettacolo frontale di scarico liquidi non è gradito.
Immortaliamo questo prezioso momento con un autoscatto. In quel momento, una graziosa ciclista compare, ci sorride e sfreccia via sulla sua bici da corsa.
Giungiamo così alla seconda diga, Brouwerdam: è costruita nello stile vecchio, con sacchi di sabbia, e nessuna chiusa per far defluire l’acqua. Ad anatre e folaghe subentrano per la prima volta i gabbiani.
Sole e nuvole sullo sfondo, spiaggia e surfisti, la cui presenza è peraltro testimoniata da una lunga fila di furgoni d’epoca, accostati a lato di un terrapieno che degrada dolcemente verso il mare. Su di esso i gabbiani prendono il sole, ci osservano e con cortesia ci lasciano il passo.
Il vento, sempre dritto in faccia, raggiunge una violenza tale da rendergli preferibile qualsiasi salita.
Senza perderci d’animo, solchiamo quella striscia di asfalto rosa che taglia in due il paesaggio.
La fine della diga sancisce il nostro ingresso in Ellemeet, grazioso paesino dove le urla del vento appaiono lontane, e tutto comunica riparo, riposo e protezione.
Decidiamo di fermarci a mangiare qualcosa su un tavolino di legno in un giardino a bordo statale, ed è lì che assistiamo a una surreale apparizione: mentre tiriamo fuori il nostro sordido scatolame, sul ciglio della strada si manifesta l’epica visione di una figura indistinta, grossa e dondolante, che avanza quieta verso di noi.
Si tratta di Philippe e Mireille.
Chi sono Philippe e Mireille? Ma è ovvio, una coppia di ciclisti hippie, con tanto di carrelli al seguito e bandierine varie. Una marea di pacchi e bagagli imbustati. All’interno del carrello di Philippe, con la lingua penzolante, riposa un vecchio e pacifico cane lupo. Lui ha le unghie dei piedi nerastre e lunghe, che spuntano dai sandali. Intendo Philippe, non certo il cane; quest’ultimo ha il pelo bagnato e puzza a vari metri di distanza. Poi si allontana a pisciare nel prato, e capisco che la puzza viene da Philippe.
Ci vedono, si fermano a mangiare con noi. Sono simpatici, ci salutano con larghi sorrisi, come fosse un incontro programmato da sempre. Ci raccontano qualcosa di loro, alternando inglese, olandese e francese: Mireille è una quarantenne di Rotterdam dal corpo magro e solcato da pioggia, vento e sole. Ed è proprio lì a Rotterdam che stanno tornando, sono partiti dal sud della Francia, dove ha conosciuto il suo barbuto apicoltore che racconta fieramente di non usare la corrente elettrica da quindici anni, e ora sono quasi arrivati alla loro destinazione.
Pranziamo insieme su un tavolino di legno, mentre il cagnone sonnecchia legato a un albero, e ci scambiamo gli indirizzi. Una mezzora di chiacchiere, e scompaiono all’orizzonte della diga, verso nord.
Finiamo il nostro prestigioso menu a base di good noodles al pollo e zuppa di pomodori, tutta roba che essendo liofilizzata risulta praticamente eterna e necessita solo di acqua calda. Vado a chiedere di riempire le borracce alla stazione di servizio dall’altra parte della strada. Una benzinaia brutta mi dice di servirmi alla fontanella fuori, mentre il suo mastino mi fissa. Alla radio suona Summer of ’69 di Bryan Adams.
A Noordwelle si apre all’improvviso una prateria sconfinata, al nostro passaggio l’erba fa la ola, oppure le raffiche di vento continuano a pettinarla; noi arranchiamo. Nel verde prepotente spicca il volo un airone cinerino. Più in là, due cigni conversano, i colli arcuati e protesi uno verso l’altro. In un recinto poco più avanti, due stalloni litigano impennando gli zoccoli. Oppure si corteggiano.
Entriamo così in un villaggio deserto che sembra quasi tenuto insieme dalla chiesetta nell’unica piazza. Anche questa ha il campanile sinistramente inclinato in avanti. Qualche altro chilometro di ciclabile, e siamo a Burgh-Haamstede, una cittadina con un po’ di movimento in più, dove le strade sono percorse da fanciulle e anziani in bici. Ci fermiamo a fare provviste a un supermercato. La nostra puerile attenzione ricade immediatamente sulla marca di affettati in busta “Cock’s fresh”, che ovviamente viene tradotto con Frescodecazzo.
All’uscita del centro, incrociamo un mulino storico ancora funzionante; decidiamo di festeggiare l’evento con una pisciata comune in un fossato a bordo ciclabile.
Ed è con questo gaio umore che giungiamo in prossimità della terza diga zelandese, ma vista l’ora decidiamo di rimandare il suo attraversamento al giorno successivo, concludendo la nostra tappa al Cauershof Camping, vicino Westenschouwen.
Ma per arrivarci, resta ancora da superare un tratto panoramico sul mare costellato di gusci di ostrica e battuto dal vento furioso. Una panchina su una lingua di terra che si sporge nei flutti è ottimo pretesto per una foto con autoscatto, vicino a un insensato monumento ai pompieri. Per avere il panorama libero, però, ci tocca aspettare che due grassoni finiscano la loro passeggiata per tornare a torturare le loro bici.
È ancora tardo pomeriggio quando facciamo il nostro ingresso in un campeggio surreale: superato il cartello di indicazione, infatti, davanti a noi appare un grande capannone agricolo, con ruspe e trattori parcheggiati in uno spiazzo cementificato. Ci affacciamo all’interno, e vediamo accatastati ogni sorta di attrezzo da lavoro, bici vecchie, canoe e ciarpame vario. Nessun essere umano, nessun essere vivente.
Proseguiamo dentro non senza una certa perplessità, fino ad arrivare in un praticello ben curato dove sono disposte con estrema regolarità una dozzina di roulotte. Al centro di esse, uno spiazzo con un tappeto elastico. Un tappeto elastico.
In fondo, giochi per bambini, un fagiano e dei polli scappano via dal nostro sguardo.
Bisognosi di presenza umana, bussiamo all’edificio che aveva con maggiore probabilità l’aria di essere destinata all’abitazione, e ci apre un signore anziano dal sorriso buono e dal cranio calvo. La pelle della sua fronte ha una colorazione irregolare.
A sentire Fabio, parla un olandese dall’accento quasi incomprensibile, ma ha i modi gentili, non sa quanto chiederci per la notte in tenda. “Mah, facciamo dodici euro.”
Il cielo è ormai sereno, il vento è sazio di noi.
Azzurro intenso, nuvole che sembrano cuori, orche e cinghiali, quattro chiacchiere con una simpatica Milf sessantenne che sembra essere una cliente abituale del campeggio, probabilmente l’unica. Anche qui ci aspettano ragni enormi nelle docce. Ma soprattutto, cedendo a una tentazione così atavica che appare quasi scontato raccontarlo, per asciugarci dal bagnato cominciamo a saltare sul tappeto elastico, e saziamo l’improvviso istinto infantile con l’occupazione abusiva dei giochi per bambini, documentando il tutto con fieri autoscatti.
Il mio tanto ostentato asciugamano “tecnico” e “in microfibra” di Decathlon continua a rimanere bagnato.
Tiriamo fuori le provviste dai pacchi: il pane a cassetta è diventato ormai pane.rar. Le utilissime spazzole comprate chilometri fa all’HEMA di Delft fanno capolino dalle borse laterali.
Cena a scatolette e frutta. Piedi nudi e pace interiore.
Si poggiano le bici nel capannone, legandole a un vecchio biliardino.
Il campeggio è completamente aperto, dietro una siepe piuttosto rada si spalanca una prateria estesa, dopo di lei il mare. Sarà questo che rende il cielo più ampio che altrove, tingendolo di mille colori diversi.
La notte passa fredda e umida. Nel dormiveglia della tenda, io sento il fragore delle onde, Fabio sente il rombo dei camion della statale vicina: probabilmente si tratta dello stesso suono.