Igoumenitsa / Perdika
L’aurora dalle dita rosate non è ancora arrivata quando una sgraziata voce al megafono del traghetto ci sveglia di soprassalto, annunciando l’imminente arrivo in porto.
Sono le quattro e mezza.
Le prime tinte blu chiaro si affacciano dalle alture dietro Igoumenitsa, rivelandone i profili aguzzi e pronunciati. Le tre tappe di mare che ci attendono non saranno una passeggiata, malgrado la vicinanza dalla costa i dislivelli sono ripidi.
Lo sbarco dalla stiva è caotico, cerchiamo di caricare le borse negli stretti corridoi tra le pareti della nave e i tir in partenza, dove l’aria è pesante e irrespirabile. Un camionista sbarca con disivoltura il suo mezzo a retromarcia, mentre noi gli giriamo attorno sperando di non fare la fine degli insetti.
Qualche pedalata nervosa, la passerella e poi il ponte. Pochi operatori portuali ci osservano con noncuranza, senza dare indicazioni. Ce l’abbiamo fatta, siamo in terra greca.
Sono le 5.30, il porto di Igoumenitsa è uno scenario da videogame di guerra. Due cani attraversano le strade grigie e deserte, il silenzio divora gli edifici scrostati, le insegne dei negozi chiusi offrono unicamente servizi di officina e ristorazione, come se qui la gente spenda soldi per riparare auto e case, o per ingozzarsi.
Il nostro battesimo alimentare con l’Ellade avviene nell’unico bar aperto che troviamo, dove una ragazza con un inglese grezzo ma comprensibile ci serve caffè espresso e rustici. Io ne prendo uno dolce alle mele e uno ai broccoletti e formaggio, per poi mandarlo giù col caffè e con qualche sorsata del vino avanzato da stanotte. Sono le sei e mezza. L’educazione alimentare prima di tutto.
Imbocchiamo la strada costiera nella luce incerta del primo mattino, le auto sono poche e il sole ha ancora sonno.
La prima cosa che notiamo ai bordi delle strade sono delle colonnine ex voto a forma di casetta, che testimoniano il luogo in cui è avvenuto un incidente, e qualcuno NON ha perso la vita. In pratica, più che un ricordo di chi ha lasciato la vita sulla strada, è un ringraziamento a chi l’ha conservata.
Le pendenze greche non tardano molto a farsi sentire: la costiera si inerpica sulle scogliere, la salita si fa sentire, noi cerchiamo di constrastarla: le scarse ore di sonno ci hanno reso meno resistenti. A bordo strada, i resti di un furgone di un comune tedesco del quale non ricordo il nome. Da qui in poi, nostro passatempo preferito diventerà scalare e occupare strutture abbandonate, camion, ruspe, cantieri deserti, al solo scopo di fare foto sceme.
Scoprire la storia dalla polvere e dagli oggetti consunti, fare congetture sulle loro origini, osservarli nel loro presente di desolazione.
Man mano che il sole si alza, il sudore scende a fiumi: giunti in un ampio spazio a picco sul mare, ci fermiamo a bere e a riposare nei pressi di una chiesetta ortodossa, dove salutiamo dei ciclisti olandesi: anche loro fanno cicloturismo, ma a differenza nostra sono in albergo, hanno comode bici da corsa e nessun bagaglio appresso.
Andati via loro, nessuno, solo i profumi del Mediterraneo sveglio da poco. Si tratta evidentemente di uno spazio per matrimoni, un gazebo, un enorme barbecue, la chiesa e le sue icone dai volti austeri alle pareti. Approfitto dell’assenza di alcuna anima viva per farmi immortalare all’interno del barbecue in veste di porco arrosto.
La strada non concede tregua: a ogni discesa corrisponde un nuovo strappo, la temperatura continua a salire, il panorama ama mostrarsi curva dopo curva. All’altezza di Syvota, Massimo si ferma a cambiare camera d’aria per la seconda volta, che si è sgonfiata proprio dopo una lunga discesa.
Poi va in fuga estenuato dal caldo, con le bestemmie più forti della pendenza. Dopo due giorni di sonno frammentario e caldo atroce, rischia un’insolazione e vuole riparo.
Lo ritroviamo qualche chilometro più in là, ai piedi di una ripidissima discesa verso il mare: l’insegna dice “Sofas camping”, il sole è alto nel cielo, non tira un filo di vento.
Sono le 13 e la tappa di avvicinamento finisce qui.
Ulivi ed eucalipti tormentati dall’incessante logorio delle cicale, un’anziana signora in nero ci accoglie con frasi sconnesse in greco, togliendosi di dosso il tedio della conversazione per riversarlo su quella che probabilmente è sua figlia. Qualche minuto di attesa e ci mostrano una piazzola dove piantare le tende.
Il pomeriggio di oggi annega nel relax, dopo tanta strada c’è bisogno di leccarsi le ferite, lavarsi i panni e farsi un bel bagnetto.
Stremati dai trenta chilometri di salite e discese sotto il sole, diventiamo il terrore dei camerieri che prendono le ordinazioni al ristorantino del campeggio. Dopo averci invitato in cucina a vedere direttamente le pietanze al posto del menu, presentandoci gli animali che andremo a mangiare, un gentile signore scrive le nostre preferenze su un foglio, rassicurandoci con le parole italiane che conosce. Ovviamente sbaglia tutto.
La bulimia prevale.
Siamo letteralmente travolti da polpi alla griglia, calamari fritti, tzatziki, insalata greca e feta.
Il resto della giornata scivola via tra nuotate verso grotte sul mare, ouzo, bucato a mano e stelle marine.
Il vino bianco fa il resto.
Dopo l’ultimo bicchiere, saluto gli altri e me ne vado in spiaggia a vedere le stelle. Scelgo un canotto abbandonato sulla sabbia, mi sdraio a naso in su coi migliori propositi. Trenta secondi e crollo nel canotto al chiaro di luna, fino al momento in cui vengo svegliato da un cane verso le due: mi lecca in faccia, sussulto, nel dormiveglia mi prende un colpo. Il mare è ancora lì davanti, le onde si sono placate, una sagoma tonda e biancastra si muove al mio fianco.
Il placido cagnone mi scorta fino al mio ritorno in tenda, forse per essere sicuro che non ritorni da lui a disturbarlo col mio russare, prerogativa che riservo agli altri.