Isola delle Femmine – Palermo
La giornata è densa di trionfo e tristezza al tempo stesso: oggi si arriva, oggi si parte. I chilometri che ci separano da Palermo sono inconsistenti, malgrado la strada sia molto bella: ma per una volta tanto conta la meta, e non la strada che c’è in mezzo.
La seconda Capitale del Regno Borbonico è alle porte: sfiliamo davanti all’affascinante Isola delle Femmine, tra quartieri di pescatori e barchette ormeggiate, per incamminarci lungo una strada panoramica in lieve saliscendi.
D’improvviso, un cartello sancisce la mèta: nero su bianco, netto, evidente: PALERMO.
Più di mille chilometri di sudore e copertoni fusi per raggiungerti, ed eccoci qui davanti a un pannello dell’Anas semicoperto di adesivi. La foto di rito porta con sé (e su di noi) i segni della Strada, le bruciature, i muscoli ancora tesi da due settimane di sforzi.
Giuseppe e Agnese decidono di farsi un bagno nell’affollata Mondello per festeggiare, mentre noi quattro proseguiamo diretti ai mercati e ai vicoli di Paliammu: è domenica, ma di mattina si trova ancora qualcosa di aperto.
Facciamo il nostro ingresso in città dal quartiere della Favorita, nei pressi dello stadio. I primi isolati sono silenziosi e deserti per il riposo domenicale.
Man mano che ci avviciniamo al centro, la vita incomincia a prendere forma, fino a brulicare di genti, cibi, odori.
Diverse lingue, orribili favelle, teste di pescespada e ortaggi ipertrofici. Urla di imbonitori e colori più veri del vero ci danno il benvenuto nel primo dei mercati sul nostro cammino, quello del Capo. Man mano che penetriamo l’anima più interna del centro, le case si fanno pericolanti e diroccate. Un odore figlio di tutti gli odori del mondo, viscerale, sgradevole eppure essenza stessa della vita, si insinua nelle narici per rimanerci con insistenza.
O forse è solo monnezza.
L’umido dei pietroni esposti al sole e agli scarti ortofrutticoli rendono Ballarò un bolo molliccio e pulsante. Ci inoltriamo portando le bici a mano, tra i saluti e gli scherni dei mercanti.
Se Totò definiva Napoli “la più nordica delle città africane”, Palermo dev’essere pieno centro.
Io in Marocco non ci sono mai stato, ma l’atmosfera che si respira nei vicoli della Vucciria non dev’essere molto differente.
Ci concediamo un primo spuntino di fichi d’India e melone bianco, prima di riunirci con gli altri da Franco U Vastiddaru, friggitoria verace e generosa di panelle, dove diamo sfogo a uno stomaco mai sazio da quindici giorni.
E poi, all’improvviso tra i vicoli fatiscenti spunta la sagoma imponente della Cattedrale. Gialla e frastagliata, si erge con maestosità come pietra miliare di un passato normanno e barocco in cui questa città era la culla della cultura (e della lingua!) italiana. A far da contrappunto al suo potere spirituale, quello temporale del Palazzo dei Normanni, dimora tra gli altri di Federico II e Corrado IV.
Girando tra le sue strade lunghe e strette, la consapevolezza demoralizzante che Palermo stia messa molto meglio della nostra Capitale e cosiddetto Caput Mundi: strade più pulite, meno rifiuti, zone pedonali e un’aria più tranquilla in generale.
Su via Maqueda incontriamo Massimo, che beve birra al tavolino di un bar e che ha deciso di trattenersi ancora qualche giorno. Prima o poi, lungo la strada ci si incontra sempre, non si perde nessuno.
Ma il pomeriggio già volge in sera, occorre quindi far provviste d’arancine (qui rigorosamente al femminile) e dare uno sguardo alle strade senza tempo del Borgo Vecchio, per poi imbarcarsi nella fetida stiva del traghetto per Napoli. E passare un’ultima nottata oppressi da Despacito, prima di svegliarsi nel punto di partenza del viaggio, con due settimane e mille chilometri di strada in più nelle gambe.