La Rochelle / Saintes / St. Hilaire de Villefranche
Tappa lunga e tortuosa, che si addentra nelle dolci campagne francesi in direzione sud. Riparto di buona lena lungo la costa atlantica, tra canneti e giunchi, stretto tra stagno e ferrovia. Dopo qualche ponte ciclabile e qualche svolta passo davanti al Dreadnought, protetto da impalcature a testimonianza dei numerosi restauri che lo preservano come al tempo in cui sfidava i flutti oceanici.
Scrivere un diario di un viaggio fatto più di dieci anni fa mi dà uno sguardo inevitabilmente non neutro sui ricordi e sugli appunti, e così anche sul modo di viaggiare che è tanto cambiato nel frattempo con l’esperienza e la tecnologia. Questi cento chilometri di percorso, che non ho tracciato ma ricostruito a tavolino sulla base della memoria, mi erano parsi centoventi all’epoca, quando non utilizzato tracker gps ma solo una linea disegnata su Google maps che mi trovavo a percorrere unendo le città come puntini nei giochi della Settimana Enigmistica. E mi basavo su uno smartphone con gps molto impreciso, che mi ha mandato dal versante opposto della collina dietro cui abitava il mio host di questa sera, perché il segnale risultava sfasato. Oltretutto, una distanza che oggi mi pare più che ragionevole per un cicloviaggio all’epoca mi sembrò un’impresa difficoltosa che mi fece arrivare esausto alla meta.
A proposito di meta, quello con Melvin è un (non)incontro di quelli che vale la pena raccontare. Mi sono trovato già dalla sera prima a cercare un’ospitalità che non avevo trovato lungo il mio percorso, estendendo la ricerca anche a costo di fare deviazioni. Dopo messaggi, contatti e telefonate svariati, un contatto di un contatto couchsurfing mi manda il numero di Melvin, che abita “in campagna vicino Saintes, e che quasi sicuramente ha spazio, prova a sentirlo”.
Melvin non lo conoscerò mai, ma mi salva il culo. Presumo sia un giovane sulla trentina dalla voce del telefono, convive in una specie di comune in campagna con altri amici artisti e mi dice con tono cordiale ma distante che se mi va bene hanno una roulotte libera vicino al casolare in cui vivono, che lasceranno aperto per la notte affinché possa usare il bagno e la doccia e cucinarmi qualcosa. Nel frattempo che divoro i chilometri, cresce la curiosità per la mia meta.
Verso l’ora di pranzo passo la vivace città di Rochefort, che sembra una La Rochelle meno affascinante, e la sinuosa foce della Charente, che diventa quasi un fiordo allargandosi gradualmente verso l’Atlantico. Risalgo quindi la Charente, grazioso afflusso di liquido denso e verdastro che si riversa nell’oceano tra ponti di putrelle di acciaio, tutti con la loro corsia ciclabile, immerso nella classica toponomastica dell’Enorme Campagna Francese, fatta di trattini distintivi, santi e altri nomi facili da dimenticare: Tonnay-Charente, Saint Hippolyte, Saint Porchaire. E poi c’è Beurlay, gemellata con Burley in Inghilterra. Che burloney. Queste facezie da Bartezzaghi sono un passatempo mentale da alternare a quello fisico del rotolio della pedivella, sul lineo rettilineo che conduce a Saintes.
Ma a Saintes non è finita, manca ancora strada. La città, tra le più estese della regione, mi accoglie nel tardo pomeriggio, giusto in tempo per evitarne lo scalo ferroviario che l’indomani si rivelerà importante, passare per l’ennesima volta la Charente e perdersi di nuovo nelle campagne. Percorro gli ultimi 17 km in un interminabile, (im)percettibile saliscendi in direzione nord, nel grano bruno di estate matura reso ancor più saturo e pieno dalla golden hour.
Dintorni di Saint-Hilaire-Brizambourg: campi, campi sterminati, grano e altre coltivazioni si alternano mentre il sole va a coricarsi. Un casolare di campagna al centro di una vasta recinzione è l’indirizzo che mi hanno dato. Il cancello è aperto, mi viene incontro un ragazzo biondo con gli occhiali, avrà venticinque anni al massimo. Mi accoglie a nome di Melvin, che stasera non dorme qui, mi spiega che sono un collettivo di artisti, fotografi, musicisti che divide le spese di una fattoria, e che amano ospitare viaggiatori. Stanotte c’è posto solo nella roulotte, spero ti adatti, ma che scherzi, è il grand hotel per me, grazie mille! Poche, fugaci parole che condensano in pochi minuti un’ospitalità tanto gradita quanto pratica, da rendere col discorso indiretto libero: anche io devo uscire stasera, torno tardi, lascio aperta questa porta sul retro così puoi usare bagno e cucina, domattina quando vai chiudi per favore, la roulotte è quella lì in fondo.
Rimango solo in una casa di campagna enorme, piena di chitarre e strumentazione audio/video, che mi è stata lasciata con la fiducia che si ripone in un familiare. Faccio la doccia, mi guardo attorno: un arredamento incredibile, moderno, foto artistiche, un ambiente accogliente. Apro il frigo, spizzico qualcosa, mi ritiro nella mia suite a ruote senza quasi toccare nulla, preso dal pudore e dall’ammirazione di quel luogo. Sul lato esterno della porta, trionfa la scritta di accoglienza Caravan Palace, forse per farmi sentire l’ospite di onore. Su quello interno, S’il en faut peu pour être heureux, il en faut peu pour être deux. Et je ne serai jamais deux sans toi.” Cosa stai cercando di dirmi, Baloo?