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Lago del Turano / Forme

Partenza
lago del Turano
Arrivo
Forme
Giorno di viaggio
2
File gpx
Chilometraggio
76.3 Km
Dislivello in ascesa
1780 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Paese
Fondo stradale
Cialtroni
Le mie bici

All’alba, il suono che ci riporta alla realtà è il campanaccio di qualche bovino in transito sulla statale. Dopo una colazione dal gentilissimo signore della gelateria, compiamo alcune operazioni strettamente preliminari e funzionali alla partenza: riempire le borracce, cercare informazioni sul percorso di oggi, svuotare i nostri involucri. Quest’ultima fase viene espletata nel gabbiotto posteriore del bar della sera prima, dove mi accaparro una certa quantità di Scottex che ci sarà utile nei giorni a venire.

Un bifolco locale sceso da una jeep ci vede preparare le bici alla partenza davanti al bar, e ci fa una specie di incuriosito terzo grado, forse con un filo di invidia; un addetto del Parco Regionale, invece, ci regala un’utilissima cartina della zona.

Lasciamo così il lago, e la punizione immediata è lo scontro repentino con una durissima salita. Federico nota una coltivazione di papaveri da oppio.

Mentre tutto intorno a noi è solo caldo, tornanti e sudore, il colore ceruleo del lago sotto di noi si fa sempre più lontano; guadagnato il valico, la strada in discesa si fa dissestata. Ci fermiamo in prossimità di un vecchio furgone Volkswagen, dove scambiamo qualche parola con un simpatico botanico sulla quarantina, intento a effettuare rilevamenti sulle piante e le erbe di un pascolo a bordo strada.

“Ragazzi, se avete occasione andateci a Monte Cervia, a parte il fatto che in cima ci devono mettere per forza ‘ste crocione enormi, un po’ come avviene su tutti i monti d’Italia” Sgranando gli occhi chiarissimi all’interno del viso vivace, ci racconta del suo furgone, acquistato in Germania a poco e sistemato pezzo per pezzo.

Proseguiamo.

Valle Cupola – Valle Cupola è un paesino in uno stato di abbandono decisamente affascinante – cani che abbaiano ai pochi passanti, con le loro proteste lasciate a sé stesse, case rette con lo sputo che si insinuano nelle pieghe nei monti, tetti rimediati con pezzi di lamiera e pietre antiche.

Mentre riempiamo per l’ennesima volta le borracce a una fonte, ci avvicina una simpatica vecchietta:

– A voi come ve và di andare in bicicletta? Io faccio fatica a piedi!

Indicando la sua busta, Federico le chiede cosa abbia raccolto, lei ride e dice “pantofole!”

“Ma mica crescono sugli alberi”, dico io, allorché lei replica divertita “Ma per quello c’è l’albero degli zoccoli, ve lo ricordate, sì?”

“Certamente, signora!”

Ovviamente non sappiamo di cosa stia parlando.

Lago del Salto – celeste e inaccessibile. Accaldati dai chilometri e bramosi di un tuffo, troviamo finalmente un sentiero per la spiaggia, nonostante un pescatore presente sulle sponde tenti invano di dissuaderci dai nostri propositi: forse preoccupato dal fatto che gli spaventiamo i pesci, usa delle scuse inutili del tipo “ragazzi, devono venire altri tre pescatori, non vi conviene stare qui… voi però fate come volete”.

Estasi delle acque rinfrescanti, pesci che schizzano ovunque. Lungo il sentiero, la carcassa di una Fiat 127 mangiata dalla ruggine e dal bosco. È semisepolta dal terriccio umido, dai fiori e dai rifiuti.

Il sole picchia, uscendo dal lago riportiamo le prime bruciature.

Pace – Dopo esserci rivelati inutili ai bisogni di due fanciulle coatte in Smart, che ci chiedono da di cambiare una banconota da dieci euro, cominciamo a erodere i cinque ombrosi chilometri di salita che ci separano dal paesino di Pace. Quello che sembra essere proprio il sindaco del borgo, impegnato attivamente nel cantiere di ristrutturazione della facciata del duomo, vanta le bellezze di casa sua, pare quasi giustificarsi del fatto che non c’è una fontanella in piazza centrale, asserendo però che “la stanno sostituendo con una nuova”.

Veniamo in Pace e facciamo provviste presso un furgone di generi alimentari, sembra uno spaccio viveri in un contesto di guerra. Dall’interno del vano di carico, il baffuto contadino dispensa frutta e pacchi di pasta alle vecchie. Federico si lamenta con lui dei prezzi alti.

Pescorocchiano – Ancora un po’ di salita, e scivoliamo con leggerezza fino a Pescorocchiano. A un crocevia, ci attende una sosta presso un bar di balordi alcolisti; notiamo la totale assenza di esemplari femmina tra gli avventori; al bar ci danno un cazzotto (ovvero un panino tondo imbottito, come lo chiamano lì) e indicazioni.

Federico non è soddisfatto del cazzotto, così si ferma a comprare pizza e pane in un forno poco distante. Mentre lo aspetto fuori con le bici, sento un vecchio lamentarsi a gran voce mentre rifà uno steccato insieme a un operaio, probabilmente riferendosi a un suo ex-aiutante: “Credesse che viene a lavorà a spasso? Ma vafangulo! E io che ce regalavo pure le cose!”

Poi, guardando noi e le nostre bici cariche: “A me, se me chiedono de fa’ ‘na girata in bici, ce dico che sei scemo, io me faccio fatica pure col furgone!” Ride, e continua a martellare.

Il pranzo a base di cazzotti, parmigiano e frutta lo consumiamo in un prato arato, mantenendo una certa discrezione nei confronti dei trattori e altri mezzi agricoli in transito nello sterrato accanto.

Ristorati e ripartiti, decidiamo di seguire un consiglio ricevuto a Pescorocchiano, e di prendere una stradina “che allunga un po’, ma passa per vari paesi”. La strada è bella e infame, e ci ritroviamo in una discesa sterrata piena di sassi, al termine della quale Federico fora la ruota posteriore. Ore di luce preziose scivolano via tra pompa e cacciagomme.

Magliano dei Marsi – Cominciamo a renderci conto che l’obiettivo di arrivare a Rocca di Mezzo in serata si sta affievolendo insieme alla luce del tardo pomeriggio che filtra nella vallata, così ci lanciamo in un veloce rettilineo diretti verso la piana del Fucino, e con ritmo serrato passiamo il confine abruzzese.

I dieci e più chilometri di salita da Celano a Ovindoli che ci separano da Rocca di Mezzo non sono più affrontabili in giornata, quindi l’obiettivo diventa quello di arrivare a Magliano dei Marsi in tempo per l’ultima corriera, dove è possibile caricare le bici.

Guadagniamo il paese con pedalata rabbiosa.

Ma inutile.

L’ultima corriera è partita da almeno un’ora, e mancano pochi minuti alle otto.

Mettiamo per qualche istante i polmoni su una panchina, cercando di non cedere all’apatia del fallito obiettivo; poi decidiamo di puntare verso i paesini di Forme e Santa Iona, ai piedi dei monti, alla ricerca di un posto tranquillo dove dormire o di un camioncino da fermare per caricare le bici.

Intanto, il sole annega al di là delle cime circostanti, dietro di noi, il Velino è sempre di fianco, e si tinge di una luce polverosa. Alba fucens e il suo anfiteatro sono dall’altro lato della strada, e per un attimo pensiamo di accamparci nel suo anfiteatro. Il problema di dormire all’addiaccio, rispetto a ieri, è che oggi siamo a poco più di mille metri, non abbiamo una tenda, e in zona ci sono parecchi cani selvatici.

Cerchiamo ospitalità in una villetta: chiediamo un letto o un garage, in cambio ci offrono una birra o un passaggio in macchina, senza bici. Gentili, a modo loro.

Forme – entriamo dentro Forme che già imbrunisce, chiediamo informazioni a un bar. La casa parrocchiale è “piena per via di un’esposizione”; la stanchezza si fa sentire, e ci fermiamo sui gradini di una chiesa per cenare, attorniati da una decina di bambini che urlano e si inseguono tra loro. Troviamo porte chiuse e gente comprensibilmente diffidente. Un cane ci ringhia.

Verso le dieci di sera, poi, ci suggeriscono di chiedere del “figlio di Natalino, che ha molti appartamenti a Forme”; quando facciamo il suo nome al bar di prima, ci mandano all’Associazione Culturale “I Grifoni”, un paio di isolati più in là.

Comincia così una surreale scena da far west, coi due gringos sporchi e venuti da lontano che entrano in un saloon di gente che non ama i forestieri.

“La tua faccia non mi piace, straniero”, sembrano dire quando gli chiediamo un posto per dormire. Federico insiste, cerca il dialogo. Io sono annichilito dai chilometri anche per dire solo una parola.

– Che cosa siete?

– Un’associazione culturale.

– E che fate, di culturale?

– Organizziamo cose, beviamo birra.

I ragazzi ci spiegano che per loro è un problema lasciare nello stabile che nemmeno appartiene a loro due perfetti sconosciuti. Uno di essi è più malleabile e mostra i primi segni di cedimento, l’altro pare voler metterci alla prova, passare un po’ di tempo con noi prima di lasciarci l’associazione a disposizione.

Sono le undici passate, e sediamo su due sedie di plastica assieme a una quindicina di frequentatori abituali dell’associazione, siamo bruciati dal sole e dal sudore e inebetiti dalla stanchezza, nonché incapaci di condurre un qualsivoglia discorso ragionevole. Ci limitiamo così ad assistere allo spettacolo grottesco di figure che si muovono, bevono e ridono in dialetto, commentando le pubblicità dei programmi e i risultati degli Europei.

“Che dici, li chiudiamo dentro, così stiamo tranquilli?”

“Dai, per me non ci sono problemi”

Pare che le cose si mettano bene.

“Ragazzi, non è per cattiveria, ma mettetevi nei nostri panni, qui niente è nostro, non vi conosciamo…”

“Se volete vi possiamo lasciare i documenti”, dice Federico con candore.

Non vogliono i documenti, né ci chiudono dentro come dicevano. Ci offrono una birra. Federico la accetta, ma non riesce a finirla.

Rimasti soli, mettiamo le bici dentro, buttiamo sul pavimento materassini e sacchi a pelo e crolliamo sul parquet.

Foto