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Menfi – Mazara del Vallo

Partenza
Menfi
Arrivo
Casabianca
Giorno di viaggio
14
File gpx
Chilometraggio
69.4 Km
Dislivello in ascesa
416 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Paese
Fondo stradale
Le mie bici

Il camping La Palma porta un nome da rifugio nel deserto, ed è l’ennesimo posto in cui bisognerebbe riposare e mettere a dormire gli spiriti da wanderlust. La spiaggia cristallina, il fresco ombroso degli eucalipti, il deserto rovente tutto intorno.
È anche l’ennesimo posto da cui ci allontaniamo, in cerca della Strada che ci reclama.
Ma prima di rifare i bagagli, è necessario confrontare l’atmosfera onirica del tuffo della notte precedente con quella mistica delle stesse acque alle sei di mattina: sono fredde, incredibilmente fredde per la stagione, e il celeste regna ovunque.
Una linea retta disegna il confine tra terra e mare, in quel luogo solitario e scelto soltanto da tartarughe o cicloturisti sprovveduti.

Rifaccio il punto del mio abbigliamento: dopo due settimane di viaggio, i miei indumenti già provati da anni di uscite in bici e viaggi perdono pezzi sotto i colpi degli agenti atmosferici: sole, vento, pioggia e sudore sono un poker che difficilmente lascia scampo ai tessuti.
Il mio cappello, unico feticcio e presenza costante in ogni pedalata da sei anni a questa parte, è striato, dal verde militare al bianco, passando per tutte le sfumature sbiadite che l’occhio umano sia capace di distinguere; presenta uno squarcio da usura sopra la visiera, che si allarga ogni volta che lo metto e tolgo.
Le scarpe Adidas si stanno disfacendo lungo una geometria diagonale: il tacco di quella destra, la punta di quella sinistra. Per ovviare a quest’ultimo problema, che da ieri mi lascia la suola in gomma penzolante sotto la tela, ho sfruttato la natura multiuso del nastro isolante nero, quello da manubrio: ora, con vari giri di nastro sulla punta del piede, sono ancor meno presentabile di prima, ma almeno posso camminare, come ogni straccione che (non) si rispetti.
I miei calzoncini da ciclismo, lycra nera un tanto al chilo della Decathlon, si stanno strappando nell’interno coscia a sinistra, per effetto dello sfregamento sulla sella: da tre o quattro giorni li indosso al contrario, in modo da distribuire l’usura sull’altra gamba, ma un pericoloso squarcio verticale si sta aprendo nel retro.
Insomma, fuori cado a pezzi, ma finché l’interno tiene è tutto a posto.

Consumiamo con avidità i dolcetti alla ricotta appena portati al bar da un forno locale, mettendo in crisi coi conti i gestori per la solita confusione che ci accompagna insieme ai bagagli sul portapacchi.
“Già ve ne andate?”, ci dice delusa la signora quando le chiediamo di fare il check out, ma la Strada chiama. Il bagno freddo, la nottata trionfale in quello che è forse stato il campeggio più bello incontrato durante il viaggio e la sete di chilometri ci spingono a lasciare anche questo posto.

Pedaliamo tranquilli nelle distese di grano intervallate da vigneti e casali, l’umore è alto e il caldo non fa (ancora) paura (per oggi). Un albero di fichi diventa facile preda della compagnia: quando un ramo sconfina dalla proprietà, l’usucapione non perdona.
Poco prima di Selinunte, ci troviamo sbarrati da un cancello di un complesso residenziale: tornare indietro è demotivante per lo spirito del viaggio, così ci facciamo avanti con garbo chiedendo lo scavallamento interno.
Al grido di “Amico caro”, qualsiasi meridionale apre le proprie porte, private o pubbliche che siano, e un gentile signore ci apre il cancello del comprensorio facendoci risparmiare strada.

Arrivati agli scavi di Selinunte, ci dividiamo: Giancarlo, Piero e Agnese proseguono, mentre io, Fiorella e Giuseppe decidiamo di restare a visitare altre vestigia greche, per proseguire una linea iniziata l’anno scorso con la RomAtene e proseguita quest’anno con Paestum, Taormina, Siracusa e Agrigento.

La città del sedano selvatico (sèlinous) se ne sta appoggiata sul mare, con ciò che resta dei suoi templi meravigliosi, eredità di una storia tanto breve quanto sfortunata: il suo periodo d’oro durò poco più di duecento anni, durante i quali arrivò a contare fino a 100.000 abitanti.
I cartaginesi furono la causa principale della sua decadenza, e lo nero periglio che vien dal mare ne decretò lo spopolamento e la successiva spoliazione dei numerosi templi: nel 409 a.C. 6.000 cittadini selinuntini furono uccisi, 5.000 fatti schiavi, e solo 2.600 riuscirono a fuggire ad Agrigento.
Di quel centro fiorente e popoloso rimasero in piedi un paio di templi dorici e numerose monete fregiate della pianta di sedano, simbolo della città.
Dopo l’occupazione romana e la cacciata dei Cartaginesi, Selinunte non fu più abitata: in seguito alla caduta dell’Impero romano e alla dominazione saracena il cronista arabo Edrisi la chiama “Rahl’-al-Asnam”, “Villaggio dei pilastri”, e così rimase fino ai primi scavi inglesi nell’Ottocento.

Il caldo ci sorprende alla fine della visita, e mentre gli altri tre guadagnano strada, siamo costretti a passare le ore calde nella marina del paese. La trattoria “Il porto” ci sfama copiosamente, ed abbiamo anche modo di importunare la fauna locale con domande e curiosità.
Valentina, cameriera della trattoria, ci dice: “Se vi piace mangiare, dovete assolutamente provare la cipolla di Partanna. Ve la mangiate così, oppure alla brace, al forno, al cartoccio… insomma, dovete provarla.
Messo a verbale.

Trascorrono le ore in trattoria, fermi, più di quaranta gradi all’ombra e nessuna possibilità di muovere un muscolo. Il sole infuria e martoria la terra inerme, a nostra volta ci rifacciamo sulla popolazione ittica di questi mari, al guazzetto o fritta che sia.
Alle cinque decidiamo che forse è il caso di riprendere il cammino, dobbiamo arrivare almeno a Mazara del Vallo. Salutiamo i ragazzi alla trattoria e ci mettiamo in sella.
Riusciamo a fare circa quattrocento metri, prima di ritrovarci boccheggianti al primo cespuglio d’ombra, con la gomma dei copertoni incollata all’asfalto e semifusa. Il computerino contachilometri di Piero segna quarantotto gradi e mezzo.
In questo pietoso stato ci trova un signore che vive dietro al muro sul quale ci siamo fermati: pensiamo sia irritato dell’invasione, e invece ci invita a casa sua per offrirci acqua fresca e birre ghiacciate.
Mio marito è così, quando gli operai hanno rifatto la strada gli ha portato anche l’ombrellone per ripararli dal sole”, ci spiega sua moglie Angela.
Anche Francesco va in bici, ma non si è mai fatto un viaggio, non come il nostro almeno. Ci mostra orgoglioso la sua cavalcatura. Un’altra mezz’ora e si riparte, pare che il caldo ora sia più sopportabile.

A Torretta Granitola vedo uno dei tanti chioschi di frutta e verdura a bordo strada, ma stavolta delle cassette ripiene di cose violacee attirano la mia attenzione: l’occhio sale di qualche centimetro, e leggo “Cipolle di Partanna”. Fermi tutti!
Il baffuto ortolano me le porge con fierezza: “queste te le fai a fettine con la carta stagnola, sono dolci, per me, guardi signò, per me sono meglio di una bistecca!
Non è facile descrivere una cipolla di Partanna. È un po’ come avere un figlio.
Hai presente l’orbis terrarum, il cerchio delle terre, il mondo insomma?
Ecco, fallo a cipolla.
Dimentica il concetto usuale di cipolla, o perlomeno decuplicalo.
Un globo grasso e rubicondo, dispensatore d’ogni lussuria, rigoglioso, fiero, incantevole. Dolce.
Una botta de mezzo chilo a cipolla. E io decido di caricarmene tre sul groppone, come premio&penitenza, goloso al punto di faticare di più in attesa della ricompensa finale.
Ricompensa che arriverà a Roma, a fine viaggio, visto che ste tre figliuole hanno viaggiato con me fino a Palermo e poi in nave.

Ma proseguiamo: l’aria è cambiata nelle ultime decine di chilometri, il continente stesso è cambiato. Non siamo più in Italia, né tantomeno in Europa. Tutto profuma di Tunisia. Le case sono basse e bianche, il mare si perde nel calore del cielo. La gente ha fisionomie asciutte, occhi sfuggenti, solchi sul viso e carne bruna. Le mani magre intrecciano ceste o zappano i campi, da queste parti del sogno dell’Europa Unita non rimane molto. Oppure è in qualche discarica dove rovistano cani randagi.

Nonostante questo clima di transizione, Mazara del Vallo ci accoglie con fare razzista, nei panni di una signora che serve ai tavoli di un ristorante sul lungomare. “La fontanella l’hanno chiusa, perché ci venivano gli zingari a lavarsi. Pensi che spettacolo per chi mangia, quelli che usano lo shampoo qui davanti! Così il Comune ha deciso di risolvere il problema così. E pensi che noi italiani qui abbiamo l’acqua corrente tre giorni soltanto a settimana. Scioccante, non è vero?”
“Sì, davvero scioccante. Lei, intendo.”
E ancora una volta la coabitazione diventa difficile, l’intolleranza ghigna dietro l’angolo e confonde i penultimi mettendoli contro gli ultimi in una guerra fratricida in nome del decoro e della sopravvivenza.

Proseguiamo attraverso i bei vicoli di Mazara mentre la sera avvolge ogni pietra col suo sollievo, dopo una giornata di raggi sferzanti. Anche stasera si arriva col buio, ormai sta diventando un’abitudine.

Ricevo la telefonata di Giancarlo, che ci informa che il campeggio che avevamo puntato, il Lilybeo, ci ha chiesto una quota di 30€ a persona per piantare le tende.
Per piantare le tende.
Trentaeuro.
Grazie mille, e in bocca al lupo per gli affari.
“Però Cla, tranquillo, cialtrone allegro il ciel l’aiuta! Siamo finiti sulla costa, e il gestore di un lido ci ha invitatio a rimanere in spiaggia da lui, possiamo dormire sui lettini, le bici ce le guarda lui e ce le mette al sicuro! Mi sa che è una situazione alla buona, ma è quello che cerchiamo noi, no?”
Avoja.

Percorriamo gli ultimi quindici chilometri nell’oscurità totale, lungo rettilinei solitari in mezzo alle vigne. Il frastuono di casse gracchianti ci preannuncia l’arrivo al Lido Marakaibbo, dove l’esotismo ispanico-latino della canzone di Lou Colombo è stato sostituito dall’esotismo arabeggiante di questi luoghi.
Appena arrivati, troviamo gli altri tre già perfettamente ambientati e a loro agio in quello che è un banchetto di matrimonio in spiaggia. Il nostro è il tavolo dei viandanti imbucati.
Panze strabordanti, giovani e anziani ondeggiano a ritmo di balli latinoamericani in voga una decina d’anni fa, DJ improvvisati tagliano canzoni con violenza o alzano il volume all’inverosimile, un adolescente dal fisico sgraziato improvvisa dei passi di danza su Despacito: tutto nella norma, siamo a casa, ancora una volta.

Crolliamo sui lettini del lido mentre il karaoke imperversa feroce: una voce femminile prende (eccessiva) confidenza e inizia a massacrare Ligabue. Il sonno giunge, in un modo o nell’altro.

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