Milano / Como
Alle 10.30 la bici è pronta e come “nuova”: il ciclista, un uomo impassibile sulla cinquantina con grandi baffi (“È un lavoro di merda, il mio”, aveva detto ieri), senza dire niente me la porge. Lo pago, dice alcune frasi biascicate in dialetto, probabilmente tra sé e sé, lo saluto, ricambia senza sorridere. Mi fermo in Stazione Centrale a comprare i biglietti per il ritorno; c’è una fila lunghissima, gente di tutti i tipi, un collega con borse sui portapacchi mi saluta. Alla biglietteria una signora anziana ha un lieve malore, il funzionario le porge una sedia premuroso. Gli unici treni con trasporto bici, vengo a sapere, passano per Bologna, e non costano moltissimo.
Dopo essermi così assicurato il ritorno, visto che ho i soldi contati, lascio la città trafficata per addentrarmi in un hinterland ancor più trafficato. Cerco a fatica di seguire la vecchia via Comasina evitando tangenziali, rampe e superstrade. Per guardare un passaggio pedonale attraverso dei lavori in corso perdo l’equilibrio e cado leggermente, con la bici quasi a passo d’uomo. Chiedo informazioni e la mia parlata viene immediatamente identificata, sia pur con simpatia: “Scusi, che strada prendo per Como?” “Ma sei partito in bici proprio da Roma?”.
Mi ritrovo su una strada a due corsie dritta e in leggera salita, binari a lato, centri commerciali e campi. Scorrono paesini e camion, col passare dei chilometri la provincia di Como, già annunciata dalla vista del Resegone sulla destra, strappa faticosamente la scena al grigiore milanese, e il paesaggio migliora progressivamente. Tra scorci di boschi e campi di pannocchie mi avvicino alla periferia di Como, e dopo tanta salita costante, anche se leggera, mi attende una discesa decisamente brusca su uno stradone a tre corsie, mentre oltrepasso i primi edifici. La città di Como è una non-città, e questo la rende bella tanto quanto Milano è rovinata dal suo essere una troppo-città: infatti, qui le case e i palazzi sono distribuiti, quasi sparsi e versati sulle colline, stretti fra il verde e l’azzurro, come se si fossero ricavati uno spazietto in cui stare, tollerati dalla natura. Sarà che vengo da Milano, ma mi sembra davvero una città a misura d’uomo, il centro pedonale è accogliente e fatto di vicoletti lastricati che si stendono fino al bellissimo lungolago. In piazza Cavour mi attende Marta, e dopo essermi rinfrescato e aver poggiato la bici a casa di sua madre in centro, ci viene a prendere suo padre: in macchina percorriamo la costa ovest del lago, su una strada panoramica che striscia sotto ponticelli di pietra e accanto allo stretto e profondo ramo del lago, ferita azzurra nelle Alpi, solcata da veloci traghetti. Ci fermiamo a Carate, nei pressi di una chiesetta, a fare il bagno: da principio l’acqua mi sembra freddissima, poi entro in simbiosi col lago e non vorrei più uscirne. Sono quasi le otto di sera, e la luce dorata del tramonto si sposa col lago e coi monti circostanti. Il tempo di asciugarsi, con la pelle ancora limacciosa per le acque non salate, e saliamo sui monti a casa del padre di Marta: un quarto d’ora di salita a piedi per un viottolo sassoso, e arriviamo in un casale rustico, ristrutturato da loro, dove stazionano cervi e cinghiali. In questa specie di paradiso immerso nel verde, tra arnie di api, cicale, cani e gatti consumiamo la cena e degli accordi acustici, entrambi fatti in casa, così come le pizze lievitate nel forno a legna e l’olio al formaggio caprino, o ancora il miele ancora allo stato ceroso. La notte la vedo da un abbaino sul tetto spiovente, e da lì si lasciano vedere delle stelle mentre nel buio della soffitta il gatto mi graffia le gambe.