Napoli / San Potito Ultra
Napoli ci sveglia con lo stesso frastuono che si è mantenuto costante per tutta la notte: quello del traffico sul lungomare e dei macchinari da carico del porto, a poche centinaia di metri dalla terrazza che ci ha visto dormire sotto le stelle.
Colazione con tazzulella ‘e caffè d’ordinanza, e ritorniamo in piazza Nilo, dove ci aspettano la statua del dio fluviale e i locali della futura ciclofficina “‘A Pedivella” , dove abbiamo parcheggiato le (preziose) bici per la notte. Approfittiamo degli attrezzi in ciclofficina per una sistemata alle bici, un’oliata alle catene e sistemare gli assetti.
Il barista di fronte alla piazza, vedendoci intenti a ripartire carichi di bagagli, ci chiede informazioni sulla nostra meta e sulla nostra provenienza. L’interesse antropologico che destiamo è inversamente proporzionale alla latitudine.
– A Atene? E perché, uagliò? Avete fatto ‘na scommessa?
Una meta ai confini d’Europa e della moneta unica già appare poco contemplabile con un volo diretto, figuriamoci con una bicicletta.
Napoli nel frattempo continua a regalarci la sua atmosfera, senza sforzo, con naturalezza. I suoi vicoli trattengono voci condensate, odori solidi e quasi tangibili, sensazioni sinestetiche. Panze che fuoriescono da canottiere unte ed esasperate, remix dance su stereo truccati, pietre laviche sconnesse su prospettive escheriane e aria che si insinua in ogni angolo, densa di umanità.
L’uscita dalla città è un videogame anni Novanta: un misto tra Carmageddon e GTA, in cui ognuno segue la propria rotta in direzione ostinata e contraria, un misto di anarchia e pietismo sangennaresco. E nel dubbio, uno suona il clackson.
Cerchiamo di immaginare un algoritmo che preveda le manovre di ciascun automobilista, ipotizzando dei princìpi, una regola. Gli sguardi, il “famose a capisse”, le intese e l’empatia. Cerchiamo di immaginarlo, ma non ci riusciamo.
Passiamo così pedalando timorosi verso nord-est, superando i primi svincoli autostradali e la ferrovia circumvesuviana.
A Marigliano ci fermiamo per una seconda colazione (o primo pre-pranzo, a seconda dei punti di vista) dopo l’avvistamento mistico di una pasticceria tipica: roba da professionisti.
Noi quattro, impresentabili e affamati, domandiamo sfogliatelle: scopriamo con disappunto che la pasticceria in questione vende solo all’ingrosso. Massimo la butta sul simpatico, fa leva sull’empatia partenopea, la ragazza dietro al banco raccoglie l’invito all’humanitas: ricompare dopo aver sottratto alcuni pezzi, sia salati che dolci, al catering per un banchetto di matrimonio.
Ripartiamo più grassi e felici di prima, nell’afa opprimente tormentata dagli pneumatici consumati dei tir.
Passiamo così le fantasiose rotatorie di Pomigliano e Nola. Siamo salvi.
Davanti a noi, il primo muro di monti Irpini: ce l’abbiamo fatta, paghiamo l’assenza di inquinamento con le prime, serie pendenze. Dopo qualche svincolo riusciamo infine a prendere la via Nazionale delle Puglie, seguendo il vecchio corollario del Toponimo Coincidente con la Destinazione: se esistesse una via Atene, la prenderemmo subito.
Un lungo rettilineo ci porta alla frazione di Schiava, dove la calura ci costringe a una sosta.
È già mezzogiorno e si sfiorano i quaranta gradi. Fontanelle non ce ne sono. Siamo in una frazione di Avella dal nome eloquente, Purgatorio. Avvistiamo una rosticceria sul lato più ombroso della via. Entro, e chiedo a una signora seriosa se può riempirci le borracce visto che abbiamo intenzione di rifocillarci e riposare un po’ nel suo locale.
“Buongiorno!”
La corpulenta signora risponde con una smorfia accigliata, “Chiudi la porta che c’è l’aria condizionata”.
“Può riempirci le borracce? Vorremmo pranzare qui”
“C’è una fontanella più avanti”, risponde lei. Entra in quel momento Massimo.
“Scusi, dov’è il bagno?”
“Eh, qui non c’è, deve andare al tabaccaio di fronte”
Allora usciamo e raggiungiamo tutti insieme la fontanella poco più su. Ci rinfreschiamo, e ci sediamo sui gradini della rosticceria per decidere il da farsi. Stabiliamo di proseguire nonstante il sole a picco, ché in quella rosticceria non abbiamo intenzione di lasciare un centesimo. Allora si riparte.
Massimo si attarda con Agnese, mentre la signora seriosa esce affannata dal suo locale pulcioso.
“Guardate che è pronto, se volete!”
Agnese, con la massima gentilezza, le risponde che abbiamo deciso di ripartire: “Abbiamo bisogno di un bagno e di acqua fresca, e cercheremo un altro posto.”
Lei farfuglia un “va bene”, e scappa dentro. Noi partiamo ridendo, convinti della lezione impartita. I prossimi viandanti magari li tratta meglio, soprattutto gli assetati.
Entro in una rosticceria, il sorriso idiota del pellegrino stampato in faccia. Poco dopo ci ospita un bel bar di paese, con tavolini all’aperto e birre gelate. Le montagne possono attendere.
Diventiamo letteralmente gli eroi e lo scoop del paese: il fruttivendolo ci lascia il suo coltello per tagliare il cocomero:
“Andate da Costantino,” ci dice, “e ditegli che vi manda Benigno: così vi fa mangiare sui suoi tavoli”
Nel frattempo, si raduna una folla di curiosi di ogni età: i sorrisi sono gentili e i modi cordiali, bastano un paio di tornanti e si ritrova ospitalità.
Le ore calde scorrono in serenità sulle sedie disposte a platea sulla statale, in modo che gli avventori possano godersi lo spettacolo delle poche macchine in transito. Birra, altra birra, cocomero, caldo, mozzarelle di bufala.
Anche qui la voce che siamo in paese si diffonde: pare quasi che la gente venga a vedere se siamo veri, in sosta in quell’angolo di Marte.
Il pomeriggio è maturo quando lasciamo Avella, pronti ad affrontare la salita di Monteforte: le pendenze impegnative ci fanno lasciare sul campo di battaglia litri di sudore. Massimo piscia a bordo carreggiata, le auto proseguono indifferenti.
Poi, la discesa per Avellino: il capoluogo irpino è steso all’interno di una conca di boschi verdi, col suo centro medievale e le sue case ricostruite dopo il terremoto dell’80.
L’aria è cambiata: lo smog partenopeo è solo un ricordo, e le montagne della terra dei lupi annegano ogni ansia nel verde intenso. Tornanti, discese, salite.
Ad Avellino chiediamo a due vigili un consiglio su dove piantare le tende, dato che zone attrezzate non ce ne sono. Un posto tranquillo, dove non ci siano problemi per passare una notte all’addiaccio. Ci dicono che in città non è il massimo, che i parchi chiudono, che gira brutta gente… insomma, meglio che no. Proseguiamo verso Atripalda, in cerca di zone rurali e di maggiore ospitalità. Un velocista tutinato ci scorta ancora oltre, verso San Potito: c’è un albergo, ma questo tipo di struttura non è in linea coi principi etici ed estetici del Viaggio. I pellegrini non viaggiano a cinque stelle.
La patina solenne e dorata del tramonto già avvolge i castagni quando decidiamo di chiedere ospitalità per piantare le tende in qualche cortile. Una gentile signora, dopo attimi di esitazione e di studio attento dei forestieri sudati che si trova davanti, si dichiara disposta a ospitarci nel cortile di casa sua. I visi puliti di Agnese e Laura di sicuro le hanno messo fiducia (non certo quelli meno puliti di me e Massimo). Ci offre acqua all’amarena e ci invita a sederci.
“Se volete, potete mettere le tende qui però vi devo avvertire che è pieno di cani randagi, e non è proprio sicuro, quelli entrano ed escono, io ho chiesto tante volte al Comune di intervenire, ma non fanno niente”
I cani randagi magari no, grazie.
Arriviamo in paese domandando di Don Alberto, parroco di San Potito, che potrebbe ospitarci nel cortile del parco comunale. Ma il ministro d’Iddio è in vacanza.
Io e Laura chiediamo invano a una coppia che sta rientrando in casa: con scuse vaghe e un po’ scocciate ci dicono di non sapere come aiutarci, e scompaiono dietro i cancelli.
A questo punto, tra i cani e il lusso borghese preferiamo cedere alla prospettiva di un letto vero: Massimo trova un B&B, per una volta si può fare.
E già che ci siamo, decidiamo di ingozzarci nella trattoria di paese, dove i salumi fanno a gara con i porcini, e il Fiano bianco d’Avellino si contende il primato etilico con l’Aglianico.
Massimo fa stretching nella gremita sala del locale, per affrontare i secondi di carne. Ancora una volta, rischiamo di finire in prima pagina nei giornali locali.
Cani che abbaiano e bambini grassi condiscono il resto della serata, prima di svenire nell’appartamento rustico coi panni stesi ad asciugare in camera. E anche oggi la tappa è portata a casa.
PARTENOPE E LE ORIGINI DI NAPOLI
Questa città non poteva che nascere da una sirena.
Se vogliamo essere realistici e prosaici, Neapolis vuol dire “nuova città”, perché fu fondata da coloni greci giunti sulle sponde campane, ma se l’aggettivo “partenopeo” per designare i suoi abitanti è sopravvissuto, un motivo e una storia che sfuggano alla fredda oggettività della Storia ci devono pur essere.
Partenope, il cui nome porta la radice di pàrthenos, vergine (il Partenone è infatti dedicato ad Athena Parthenos, vergine), era una bellissima fanciulla frigia, legata alla castità da un voto solenne.
Essendosi però invaghita del giovane Metìoco, volle comunque tener fede al suo giuramento, e per evitare ogni tentazione l’infelice decise di tagliarsi i capelli e trasferirsi in Campania, dove si consacrò a Dioniso.
Ma Afrodite, che mal sopporta chi rifiuti Amore, diede ancora una volta sfogo ai suoi sentimenti vendicativi (e te pareva) e la mutò in sirena.
Le sirene non godevano di grande stima presso gli dèi dell’Olimpo: il motivo principale è che col loro canto melodioso attirano i marinai presso di loro, e che questi, ammaliati dalla loro voce, conducano le navi sugli scogli annegando, ma molte altre storie si raccontano sulla loro dannazione.
Una di queste le vuole intente a giocare con Persefone quando fu rapita da Ade: dato che non fecero nulla per impedire i propositi del dio, Demetra le maledisse facendo loro spuntare piume d’uccello e costringendole a vagare per il mondo.
Neanche Afrodite le aveva in simpatia, a causa della loro ostinazione a conservare la verginità, e secondo un altro mito le trasformò in uccelli: ma esse non potevano più volare da quando furono sconfitte in una gara di canto dalle Muse, che le strapparono le ali per farne corone. Insomma, le classiche gatte morte che non hanno amiche femmine.
Partenope, povera stella, in realtà non aveva fatto nulla di male, se non causare naufragi qua e là tra Gaeta e Sorrento insieme alle amiche Leucosia e Ligea. Quando Odisseo passò da quelle parti, era già stato avvertito per tempo da Circe: “Guarda che quelle son donnacce, sta’ attento e usa la cera nelle orecchie. E se proprio sei curioso e muori dalla voglia di sentire come cantano le squinzie, fatti legare dai tuoi uomini all’albero maestro, e di’ a loro di non ascoltarti e non slegarti quando sarai fuori di te per la loro voce e vorrai raggiungerle. Voi uomini, tutti uguali comunque.”
Giunti vicino all’Isola delle Sirene, Odisseo foderò le orecchie dei compagni con la cera, e seguì per filo e per segno i consigli di Circe.
Al loro canto, l’eroe iniziò a smaniare e dimenarsi, pregando prima i suoi uomini di slegarlo, poi minacciandoli di morte se non lo avessero fatto. Quelli eseguirono gli ordini, e la nave passò l’isola senza che nessuno scendesse a terra.
Le Sirene non la presero bene, mai un fallimento nella carriera, e una volta che succede una si uccide per la rabbia, nei pressi degli scogli davanti a Positano oggi detti Li Galli e dai greci chiamati Sìrenussai.
Il corpo di Partenope fu portato pietosamente dalle onde sul lido di Megàride, dove oggi sorge Castel dell’Ovo, e ritrovato da alcuni pescatori, che la venerarono come una dea e protettrice della città. E con un po’ di fantasia, ancora oggi si possono vedere le forme di un corpo femminile nelle alture del Golfo di Napoli, tra Monte Tiberio e Monte Solaro.
Da qui in poi interviene il folklore napoletano a colorire la leggenda greca di più varianti, forse meno mitologiche ma altrettanto affascinanti, che connettono il mito delle sirene alla tradizione di suoni e musica della città di Napoli.
In una famosa versione di Matilde Serao, Partenope era una principessa greca fuggita col suo innamorato dalla sua madrepatria sulle rive del Mar Jonio per evitare un matrimonio imposto dal padre. Libera dal senso tragico dei miti greci, questa storia si risolve nel lieto fine dei due amanti che trovano una nuova terra da abitare e da vivere, dove fiori e frutti sbocciano spontanei al loro passaggio. E per usare le sue parole,
« Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene (…) quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale …è l’amore. »
Non sarà il canto delle sirene
che ci innamorerà
noi lo conosciamo bene
l’abbiamo sentito già
e nemmeno la mano affilata
di un uomo o di una divinità
Non sarà il canto delle sirene
in una notte senza lume
a riportarci sulle nostre tracce
dove l’oceano risale il fiume
dove si calmano le onde
dove si spegne il rumore
non sarà il canto delle sirene
ascoltaci o Signore.
Mio padre era un marinaio
conosceva le città
mio padre era un marinaio
partito molti mesi fa
mio figlio non lo conosce
mio figlio non lo saprà
mio padre era un marinaio
partito molti mesi fa.
Non sarà il canto delle sirene
nel girone terrestre
ad insegnarci quale ritorno
attraverso le tempeste
quando la bussola si incanta
quando si pianta il motore
non sarà il canto delle sirene
ad addormentarci il cuore
quando l’occhio d’ Ismaele
si affaccia da dietro il sole
e nella schiuma nella nostra noia
qualcosa appare e scompare
non sarà il canto delle sirene
che non ci farà guardare
mio padre era un marinaio
e andava a navigare
se l’è portato il vento
se l’è mangiato il mare
mio padre era un marinaio
girava le città
mio figlio non lo conosce
ma lo conoscerà.
Non sarà il canto delle sirene
che ci addormenterà
l’abbiamo sentito bene
l’abbiamo sentito già
ma sarà il coro delle nostre donne
da una spiaggia di sassi
sarà la voce delle nostre donne
a guidare i nostri passi
i nostri passi nel vento
e il vento ci prende per vela
sarà di ferro la sabbia
sarà di fuoco la sera
ascoltaci o Signore
perdonaci la vita intera.
Mio padre era un marinaio
conosceva le città
partito il mese di febbraio
di mille mesi fa
mio figlio non lo ricorda
ma lo ricorderà
mio padre era un marinaio
mio figlio lo sarà.
(Francesco De Gregori, Il canto delle sirene)