I chilometri pedalati durante il quarto giorno sono stati circa 90, non moltissimi rispetto ai giorni precedenti, ma comunque impegnativi, da Palombaio a Cisternino. Cisternino si trova a 390 m sopra il livello del mare, e il punto più alto di questa quarta tappa, Locorotondo, a 450 m. Una specie di secondo mini-scollinamento dopo le vette di Ariano Irpino.
Oh si certo, è proprio come diceva il mio amico Peppo Nisi da Grottaglie quando gli esponevo il dubbio fra percorrere la costa a quota zero metri s.l.m., oppure pedalare lungo l’interno di questa penisola nella penisola: fai l’interno, vedrai sono solo dolci pendenze.
A parte il fatto che non ti puoi aspettare un giudizio oggettivo su questi argomenti da uno che è salito da Sulmona a Campo Imperatore con una bici cargo (vuota, per lo meno), il punto principale è che non prevedevo di fare il percorso in compagnia di quella grandissima scassapalle della Voce del mio ginocchio destro. Non so esattamente cosa sia successo dalle parti di Solopaca: sicuramente ho fatto un movimento sbagliato. Poi credo ci sia un problema di postura, e sto facendo diverse prove portando avanti e indietro la sella, in alto e in basso. Per carità, è pure la fatica e la stanchezza. Ho pedalato per 450 km e, come carinamente ricorda mia sorella, ho 51 anni, sono giovane dentro ma non è scontato che lo sappiano anche le cartilagini.
In più, ha la sua parte di ragione anche l’amica Sara a dire che sono tensioni: è una voce che vorrebbe costringerti a rinunciare, a tornare indietro, ché in fondo è davvero una stupidaggine pedalare 640 km per andare ad una conferenza, ma non è detto che la Voce vada ascoltata, anche perché il fastidio scompare del tutto appena metto i piedi a terra..
Io però la Voce del mio ginocchio la ascolto e decido di accettarla come compagna di viaggio. Ogni maledetta pedalata smette di essere la semplice ripetizione involontaria di un gesto meccanico e diventa un gesto consapevole che mi costringe alla piena presenza mentale: sto pedalando da Roma a Lecce perché ho deciso di farlo e arriverò in fondo.
All’altezza di Adelfia la Voce ha comunque iniziato a diventare davvero petulante e ho dovuto chiudere la discussione con un secco “Hai rotto il cazzo!” che in ginocchiese si traduce con OKI!
La transizione dal barese al brindisino corrisponde ad un drastico cambio di paesaggio, da qualche parte fra Turi, Putignano e Alberobello. Compaiono i fiori, i colori, il giallo, il fucsia, il bianco, il verde. Appaiono alberi da frutto, mele, pere, melograni, le erbacce fra i muri a secco. Sboccia di nuovo la vita ed ho avuto una più chiara comprensione dell’inquietudine di ieri. Non era solo la distesa uniforme di ulivi. Sotto, la terra è morta. Non c’è un cane, un gatto randagio, non ci sono insetti, nulla.
Sotto gli ulivi, sopra la nuda terra, non c’è erba ma plastica, bottiglie, copertoni, monnezza varia. È una unità di produzione. Una tavola rasa al suolo, eradicata ogni forma di vita che non sia in grado di generare un profitto immediato. È una pianura fertile, di latifondi, e quello è il suo destino.
Gli ulivi hanno forme fantastiche, sì, ma è una beffa perché la varietà del loro patrimonio genetico replicato in talea e inferiore a quello dell’esercito dei cloni dell’Impero di Guerre Stellari. Il mercato globale vuole questo: un prodotto standard, no surprise. La scommessa, ed è un gioco d’azzardo rischiosissimo, è che qui non arrivino mai parassiti voraci, che le condizioni climatiche rimangano sempre all’interno della pur ampia zona di sconforto dell’ulivo.
Basta niente per innescare un’estinzione di massa, e qualche decina di chilometri a sud, in Salento, l’estinzione è gia in atto. In mezzo ci sono i trulli della Val d’Itria, che in confronto alla provincia di Bari sembrano il giardino dell’Eden.
Un colpo di pedale dopo l’altro, io e Ginocchio arriviamo a Cisternino ed è quasi festa, perché domani, da qui a Lecce, sarà solo discesa, e ce la siamo meritata tutta.
Per festeggiare, organizzo una cena itinerante:
– inizio con un gin tonic da Pharmacy, una minuscola mescita gestita da un ragazzo che produce il suo gin con ginepro, carote rosse di Putignano e altre erbe autoctone;
– di seguito nella macelleria/rosticceria accanto a Pharmacy, all’interno di un grottone con quattro tavoli dove io sono il turista e gli altri clienti sono due famiglie del posto sedute attorno a una tavola, quattro adulti e quattro bambini di otto anni o meno, che mangiano solo salsiccia, ho ordinato birra e gnumeredd, ovvero interiora di agnello avvolte nel loro grasso e cotte nel forno a legna, salvo poi accettare il consiglio del figlio del titolare il quale, prima di servire l’ordinazione, suggerisce cortesemente di poter aggiungere alla comanda patate lesse condite con sale e pepe, successivamente rivelatesi essenziale accompagno alle interiora;
– proseguo con orecchiette alle cime di rapa e abbondante negramaro nel secondo locale consigliato dal titolare Pharmacy, in questo caso una normale tourist trap da piccolo borgo gentrificato, ma con personale almeno cordiale, e un evidente difetto di piccante nelle orecchiette: spiace dirlo ma a casa mia le orecchiette con le cime di rapa sono migliori, e non di poco; e purtuttavia non me la sento di farlo notare al giovane cameriere che mi chiede un parere di cortesia sul piatto, è tutto ottimo dopo 500km suo pedali;
– chiudo con gelato in piazzetta; detesto cordialmente le gelaterie che contano i gusti da servire nella coppetta e nemmeno fanno la mossa di offrire la panna: sono tristi come le cassette di lattuga moscia al supermercato.
Complessivamente mi pare che, dopo gli ottanta chilometri di oggi in compagnia di quel rompicoglioni del mio ginocchio, questa cena corrisponda ad un corretto apporto calorico di preparazione per l’ultima tappa di domani.