Olbia – Berchidda
La Sardegna non la descrivi a parole. È un’esperienza fisica, spirituale, un’immersione totalizzante in un mondo altro eppure a sole quattro ore di traversata dalla capitale. E così, quando un paio di amici mi hanno detto che per loro era praticamente la prima volta sull’isola, avendo soli cinque giorni a disposizione per un viaggio, mi sono messo a studiare un itinerario che desse uno sguardo alla sua varietà, unendo parti che avrei voluto esplorare anche io a luoghi in cui ero già stato e che non vedevo l’ora di rivedere.
E visto che un viaggio in bici deve avere sempre un senso simbolico, ho pensato che l’unica dovesse essere una traversata: unire due punti estremi con una linea sghemba, toccare la costa ovest partendo da quella est, penetrare il cuore più profondo di Ichnusa. E così, tra i conti con chilometri, altimetrie, tempi e quantità di bellezza di cui godere, è nata la TranSardinia, una traversata da Olbia a Cagliari passando per la costa occidentale.
Per un cicloturista romano, arrivare in Sardegna è estremamente facile: un’ora di treno per Civitavecchia, e almeno tre compagnie tra cui scegliere per imbarcarsi, due destinazioni principali – per Olbia 5 ore, per Cagliari 11 in notturna.
Noi abbiamo scelto di occupare la mattina del primo giorno con la tratta Civitavecchia/Olbia della Tirrenia, dalle 9 alle 14, per fare una prima, breve tappa di avvicinamento verso l’interno dell’isola pedalando soltanto il pomeriggio.
Come al solito, siamo una sorta di animali strani al controllo sicurezza, gli addetti della finanza ci trattano con cortesia e curiosità quando ci chiedono di smontare le borse e le tende per farle passare sotto al metal detector. Ma appena superato questo simbolico scoglio, si nota quanto le bici siano più agili e benvolute a bordo: l’imbarco è più veloce e senza fila rispetto alle automobili, ma avviene in stiva a differenza dei passeggeri a piedi.
All’interno, gli operatori della Tirrenia ci sistemano in una nicchia a lato dell’ingresso, le bici legate tra loro con le funi, “giusto per non farle cadere, tanto qui chiudiamo”. Non ci resta che portare su le borse Ortlieb e goderci un Tirreno color grigio autunno al bar della nave.
Verso l’ora di pranzo, il cielo si apre, quasi fosse un preludio e un benvenuto sull’Isola: le prime forme frastagliate spezzano la monotonia dell’orizzonte blu, si capisce immediatamente che nonostante la vicinanza col resto dell’Italia ogni cosa qui ha un altro colore, un altro sapore, segue altre leggi.
Il piroscafo si guadagna il suo accesso attraverso la baia di Olbia, passando in rassegna gli isolotti e gli scogli che ne preannunciano la vicinanza: Tavolara, Molara, la punta di Golfo Aranci.
Poi, lo sbarco: usciamo ancora una volta per primi eludendo le affannose manovre degli autotreno, sgusciando a terra dalla passerella con nonchalanche.
Con qualche difficoltà da traffico troviamo la strada di uscita da Olbia, un corridoio privilegiato che permette di ritrovarsi subito nella campagna sarda senza svincoli, tangenziali o strade a grande percorrenza: costeggiato per un po’ il lungomare in direzione sud, prendiamo dapprima via Siena e poi via Franco Micaleddu, praticamente due ciclabili naturali. In un istante, l’ambiente urbano cede il passo ai muretti in pietra viva, agli ulivi e ai pascoli.
Ichnusa, l’ “impronta del piede di Dio”, si concede all’improvviso, regalandoci i suoi profumi e i suoi contorni spigolosi, mentre tartarughe passeggiano indisturbate ai lati della strada.
Man mano che procediamo verso l’interno, inizia la silenziosa battaglia per evitare la superstrada Olbia / Sassari, che vinciamo a colpi di svincoli e deviazioni: seguendo la traccia, infatti, ci accorgiamo di procedere a zig zag lungo tre grandi assi, il fiume, la ferrovia e la statale. Il primo ci dà un punto di riferimento e ci allieta il viaggio, la seconda costituisce una risorsa in caso di problemi (quando si viaggia non c’è nulla di vergognoso nello sfruttare il trasporto bici in treno, quando è necessario), la terza va evitata per strade secondarie.
Arriviamo così per piccoli sterrati e viottoli a Monti, patria del vino vermentino: quasi necessaria una sosta al primo bar, dove il gentilissimo barista ci ristora con un paio di bicchieri di bianco e dolcetti fatti in casa.
Il pomeriggio volge ormai al termine, e ristorati dall’ebbrezza del mosto ci incamminiamo verso Berchidda, sosta prefissata per questa prima mezza tappa di avvicinamento. Solo in prossimità del suo centro abitato incontriamo gli unici dislivelli della giornata, una salita dapprima leggera, poi ripida, infine un vero e proprio muro al 20%: casualità vuole che il primo campeggio ai piedi del centro di Berchidda, il Tancarè, sia stato chiuso due anni prima, e che l’unica alternativa sia il Camping Belvedere, proprio in cima alla collina su cui è disteso il paese. Ci rimbocchiamo le maniche e affrontiamo gli ultimi, durissimi tornanti nel bosco.
Arrivati in cima, il gestore del ristorante del campeggio ci dice che l’area tende apre soltanto d’estate, in occasione del Jazz Festival di Paolo Fresu, ma che per i viandanti fa volentieri un’eccezione: del resto, un’altra coppia di camminatori tedeschi si era accampata poco prima.
La prima serata in terra sarda finisce con ettolitri di rosso e un’eccezionale zuppa alla berchiddese, accompagnata da formaggi locali e pane carasau e diluita da amaro alla liquirizia.