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Orbetello / Marina di Grosseto

Partenza
Orbetello
Arrivo
Marina di Grosseto
Giorno di viaggio
1
File gpx
Chilometraggio
71.4 Km
Dislivello in ascesa
170 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Paese
Fondo stradale
Diario
Cialtroni
Le mie bici

Non di sole epiche traversate campa il ciclista abbondante e dozzinale.

Anzi, proprio in quanto tale, preferendo la quantità alla qualità, è spesso costretto a ripiegare in brevi fughe dalla routine metropolitana in cerca di sudore e quiete, con delle scappatelle mordi-e-fuggi di pochi giorni.

Come quando si è deciso, con Gianluca, di ritagliarci una manciata di giorni per solcare le gialle distese della Maremma: rotta per Livorno, obiettivo di dar fastidio all’Aurelia con il nostro zigzag intorno ad essa.

La manciata dei giorni preventivati si è ridotta a tre e due notti, si parte da Orbetello e si arriva al porto di Livorno. È importante che questi itinerari conservino un senso simbolico, abbiano una loro compiutezza. Un’impresa epica e insensata, alla ricerca di un titanismo idiota, che poco o nulla si cura dell’afa e di scegliere un percorso fresco; il sole quasi scoppia, i litorali sono affollati di famiglie e bambini urlanti, e noi giustamente si va a pedalare lì.

Incuranti di tutto ciò, per l’ennesima volta facciamo battezzare la partenza dalla nostra più fidata madrina, Stazione Trastevere, che come sempre si è svegliata prima di noi e dell’alba. Qui incontro Gianluca: il carattere di questa balorda sortita è evidente solo guardando le nostre attrezzature e carico.

Suo abbigliamento: completino giallo evidenziatore (“per rendersi visibile ai camion”) da calcetto, sintetico e attillato (“assorbe ‘na cifra il sudore”). Pedala su quella che lui definisce “il suo catenaccio”, proveniente dalle famigerate baracche di Porta Portese e sopravvissuto a varie operazioni di restyling e verniciatura, nonché alla Corsica e all’Austria. Legata dietro il catenaccio, fa la sua figura una valigia rigida marrone modello emigrante, manca solo lo spago al posto dei tiranti per tenerla.

Mio abbigliamento: maglietta verde scolorito con la stella dell’EZLN, cappellino da cecchino messicano comprato a tre euro da un H&M in Belgio, marsupio da parcheggiatore abusivo che conservo dalle elementari, mio fido compagno di viaggio in tutti i miei viaggi in bici. Le sue zip non hanno più cerniera, e il tessuto comincia ad autolacerarsi, ma secondo me quello ce seppellisce a tutti.

Pedalo sulla mia Collalti, accompagnandola meticolosamente nel suo processo di invecchiamento veloce, con un carico minimale. Niente tenda, ché si è figli delle stelle. Un cambio essenziale, attrezzi, sacco a pelo e un orrendo materassino di gomma blu che usavo come tappetino della tenda per le vacanze. Stavolta l’intento sarebbe dormirci sopra ed evitarsi un po’ di umidità.

E poi, carburanti speciali per noi. Un po’ alla Easy Rider.

Regionale Roma-Pisa Centrale, vecchio ammasso di lamiere incerte, portaci a Orbetello. La prossima volta, in orario però.

ORBETELLO – ARGENTARIO – ALBINIA

Quando partiamo il sole è una sfera di fuoco parecchio incazzata. Lasciamo la stazione in direzione dell’Argentario, dove troviamo addirittura una bella ciclabile sulla striscia di terra che argina il promontorio alla terraferma. Si costeggia così la laguna con passo tranquillo, acqua di qua, acqua di là, davanti agli occhi il tranquillo e familiare contorno del monte. Tagliando le pinete e la civile tranquillità delle villeggiature estive, attraversiamo le frazioni di Terrarossa, il Mascherino e Santa Liberata. Non appena ci allontaniamo dall’ombra dell’Argentario per lasciarcelo alle spalle, l’afa e il sudore cominciano a farsi sentire, e ci fermiamo a un fontanile. Il traffico è tranquillo, a parte qualche camion isolato.

Giunti ad Albinia, cominciano i problemi. E non tanto dipendenti da noi o dalle bici, quanto dall’implacabile SS1 Aurelia, che ci sbarra il passo furiosa di TIR. E la beffarda e attraente ciclabile che troviamo va in tutt’altra direzione.

Decidiamo così di deviare nell’entroterra per strade complanari nei campi arati, facendo perimetri di distese giallastre e battute dal sole, scandite solo dai covoni sparsi qua e là, senza riparo alcuno dalla luce che non ha pietà per le zolle di terra.

ALBINIA – FONTEBLANDA – ALBERESE

Dopo aver passato qualche chilometro tranquillo nel profumo di erba tagliata su una provinciale asfaltata, ci troviamo sempre di fronte alla feroce Aurelia: percorrerla in questo tratto è un’azione che persino il nostro blando e accondiscendente buonsenso riesce a impedirci, e se non dovesse bastare lui ce lo ricordano i ruggiti degli autotreni e la mancanza di una corsia d’emergenza.

Deviamo ancora una volta per uno sterrato a poche centinaia di metri dalla statale, dove ci cibiamo di susine abusive. Spinto da ingordigia e dalla vista dei frutti non colti di un albero, Gianluca inciampa in una recinzione di fil di ferro di altezza ridicola, meno di trenta centimetri. Subito dopo ci accorgiamo che il fil di ferro è collegato a un generatore di corrente, e che quella recinzione in teoria doveva essere elettrificata. Si evince che siamo cinghiali mancati, o che qualcosa ci è andato di culo.

I colori della terra e dei campi sono un’orgia di tinte bruciate, e per un breve tratto lo scenario attorno a noi ha assai poco di europeo. L’aria risucchiata da un camion di passaggio mi porta via il cappello.

Giungiamo così a Fonteblanda, dove ci fermiamo qualche istante in un surreale ristoro abbandonato: forse un bar, forse un ristorante, sicuramente un grande edificio rosso con un lungo portico e un giardino, dominato da gatti isterici e canarini in gabbia. Tracce umane, assenti.

Vetri impolverati, cartelli e strutture direttamente provenienti dagli anni Settanta, silenzio inquietante. Pare il film “Dal tramonto all’alba”. Mentre diamo tregua al sudore, ormai stanco dello scenderci continuamente addosso, assistiamo per un po’ alla tenace eppure inutile lotta di un gatto, che continua a saltare contro la gabbia dei canarini infrangendosi puntualmente contro le sbarre.

Proseguendo troviamo ancora una volta davanti l’ostacolo della statale: lo sterrato è servito solo momentaneamente a prolungare la nostra assenza dalla civiltà.

Dall’altro lato dell’Aurelia abbiamo il Parco dell’Uccellina, quindi decidiamo di cercare scampo lì, magari c’è una parallela percorribile. Dopo un sottopassaggio, ci toccano un paio di chilometri di terreno sassoso e accidentato in leggera salita, che non portano a nessuna parte se non a terreni privati.

Un attimo di esitazione.

Ci si volta nei quattro punti cardinali in cerca di ispirazione, finché l’occhio non ci cade su un cancello non molto alto, senza scritte, e un fossato di terra smossa da un lato, il cui accesso è impedito solo da una grata per animali.

Insomma, niente che un balordo non possa fare, figuriamoci due.

Si sollevano così le due bici, una per volta, uno dall’interno l’altro dall’esterno, occhio che m’è entrato un pedale nella costola, me stai a da’ la ruota in faccia, tienila per il sellino che è più facile, cazzo che sudata, e nel giro di pochi minuti ci ritroviamo a pedalare lungo un bellissimo sterrato di una zona protetta, non sappiamo da chi, né perché.

Nugoli di fagiani starnazzano al nostro glorioso incedere, disperdendosi pavidi nella boscaglia.

Rovi e more premature ci guardano compassionevoli.

Passiamo un paio di edifici rurali: discrezione, mi raccomando, facciamo finta di niente, se ci chiedono qualcosa il cancello era aperto, ce ne andiamo subito, ci scusi signore eccetera.

Fuoristrada parcheggiati e rumore di stoviglie messe ad asciugare dopo il lavaggio.

Poco dopo, vediamo saltare un branco di cervi (di cervi?) a poche decine di metri da noi, con lunghi balzi nell’erba alta. Dove minchia siamo finiti?

Qualche chilometro ancora, fine del percorso turistico. Altro cancello. Questo è tradizionale, quindi piuttosto alto, sui due metri e mezzo. Non ce può mica sempre dì bbene.

In più in un cortile di una casa oltre il cancello dei bambini stanno giocando, quindi lo spettacolo che ci accingiamo a offrire loro non si presenta come il massimo dell’esempio civico.

Si procede così:

  • smontaggio bagagli (compresa la valigia dell’emigrante e l’orrido materassino blu);

  • patetico lancio bagagli oltre il cancello;

  • arrampicata e discesa oltre il cancello del soggetto x, evitando gli spuntoni acuminati alla sommità del cancello stesso;

  • sollevamento bici x da parte di y, penoso e sudato passaggio della medesima a x oltre il cancello;

  • sollevamento bici y da parte di y, penoso e sudato passaggio della medesima a x oltre il cancello;

  • arrampicata e discesa oltre il cancello del soggetto y, evitando gli spuntoni acuminati alla sommità del cancello stesso;

  • atterraggio di y oltre il cancello, facendo (poca) attenzione ai bagagli e alle biciclette sparsi nella zona di atterraggio;

  • autocompatimento condiviso;

  • allontanamento dal posto, con quanta più discrezione consentono le condizioni dell’intera scena.

Poche centinaia di metri dopo, è l’insegna della trattoria “l’Orco”, decorata con bandierine dai colori vivaci, a sintetizzare la bassezza morale della scena poco prima vissuta.

Imbocchiamo la provinciale per Alberese, che ci concede un po’ di tregua da deviazioni e acrobazie, regalandoci addirittura un po’ di ombra fino all’ingresso in paese.

ALBERESE – GROSSETO – MARINA DI GROSSETO

Seduti al tavolino di un bar a bordo strada, Campari e piadina, importunati dal caldo e dalla forzata simpatia del gestore. “Avete scelto il giorno più caldo della settimana per muovervi, oggi fanno più di 38°”. Il tizio ci fornisce però importanti informazioni sui problemi di strada che già si affacciano all’orizzonte: “Ragazzi più avanti c’è il fiume Ombrone, e il primo ponte utile per attraversarlo è l’Aurelia”.

Ci facciamo coraggio, e finalmente paghiamo tributo all’asfalto; e sono tre chilometri di magliette tirate su dal risucchio dei Tir e di traiettorie meticolosamente dritte, qui per fortuna la carreggiata è un po’ più larga, e la striscia rovente ci porta fin dentro Grosseto, sempre accogliente e quieta.

Di lì, sfidando un pomeriggio non meno torrido della mattinata, rivolgiamo di nuovo la rotta verso il mare, per una bella ciclabile tra i campi e i canneti.

La luce è sempre incazzata, ma più diffusa, come solo in estate sa essere.

Passiamo Principina a Mare, e finalmente nel tardo pomeriggio, con più di 80 km nelle gambe, facciamo il nostro ingresso a Marina di Grosseto, che ci accoglie con una vasta e ombrosa pineta.

Completata la tappa della giornata, restano due questioni logistiche da sbrigare: magnà&dormì.

Ovviamente, entrambe le operazioni vanno effettuate in maniera abbondante e dozzinale; vale a dire, ottenendo un risultato quanto più possibile soddisfacente in termini di quantità, spendendo il meno possibile. La famosa troppo corta lascerà scoperta senza alcun rimpianto la qualità.

Alla questione alimentare provvede un supermercato e il buon gusto di Gianluca, che esce soddisfatto brandendo una busta contenente due lattine di fagiuoli, un chilo di pizza bianca, un formaggio spalmabile di sottomarca e una bottiglia di pessimo rosso da tavola. All’acqua provvederà il Comune di Grosseto e le nostre borracce.

Per il pernotto, essendo volutamente privi di tenda, chiediamo alla pro-loco se esistono posti tranquilli e legali dove accamparsi lungo il litorale.

“Ma certo ragazzi, se passate gli stabilimenti dopo la pineta si può stare tranquillamente… però se proseguite fino a Castiglione della Pescaia, c’è più movida, più movimento per voi giovani…”

Il fantasma di Nanni Moretti si agita dentro di noi.

Trovato il luogo adatto, leghiamo a un palo le bici e le scarichiamo per preparare il nostro prestigioso campo base. Sono le sette e mezza, e non il sole ancora non dà tregua.

Cerchiamo di fare una doccia negli stabilimenti ormai in chiusura, ma i senegalesi surfisti che le custodiscono ce le negano con cortesi scuse.

Ripieghiamo su una sommaria sciacquata marina.

Dopo la toeletta, si consuma la sontuosa cena. Cannellini e borlotti, pietanze da re.

Per spalmare il mediocre (pietoso) formaggio sulla pizza, ricorro al coperchio della vaschetta di plastica della confezione, avvalendomi del condimento della sabbia. La bottiglia di vino in due, il nostro carburante speciale, il sole della giornata e la pedalata formano una cooperativa con l’obiettivo di stenderci definitivamente. Ci riescono molto bene.

Ci addormentiamo in condizioni pietose verso le dieci di sera, cullati dal rumore delle onde e dal riflesso della luna sul mare.

Quando si va a dormire presto, le ore dopo l’una vengono definite “del mattino”; quando questa condizione non si verifica, si parla in maniera disinvolta di “tre di notte”, “quattro di notte”, e così via.

Sono appunto le tre del mattino quando il nostro sonno sabbioso viene bruscamente interrotto da un rumore atroce, e dei fari allucinati squarciano il velo del nostro pacifico stordimento.

Niente più Comfortably Numb.

Ci occorre qualche secondo per renderci conto che quello che ci viene incontro fendendo il buio è il trattore che compatta la spiaggia, e non ci resta che strisciare come vermi nei nostri sacchi a pelo per evitare fini indecorose.

Un’oretta dopo lo sentiamo tornare indietro, ma noi baccelli siamo ormai al sicuro, lontani dalla sua traiettoria.

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