Pisa / Lucca / Castelnuovo in Garfagnana / Pietrasanta / Livorno
L’ascesi abbondante e dozzinale
Il 23 maggio 2013 a Pisa piove. E piove di una di quelle pioggerelline tristi e incessanti che sembrano penetrarti il cranio e dirti di tornare a casa, in cerca di benessere.
È un paio di giorni che ne parliamo, e mi sono intestardito sulle Alpi Apuane, ho bisogno di raggiungere quei monti che vediamo all’orizzonte dalla parte opposta del mare, voglio la Garfagnana. Ma loro due di salite ne hanno abbastanza, e se Fabio era stato per un attimo tentato da paesaggi diversi da quelli dei giorni scorsi, Saverio se ne era tirato fuori da subito.
Mentre facciamo colazione i palazzi si fanno ancora più grigi, il maggio radioso di ieri sembra lontanissimo, e i miei compagni di viaggio decidono che per loro l’impresa si è conclusa due giorni fa, e si avviano alla stazione in attesa del treno per Roma. Prima di salutarci, Fabio mi consegna un pegno fondamentale per proseguire il viaggio tra i monti in solitudine: i suoi ipercalorici stroopwafels olandesi, un concentrato di burro, miele e zucchero pressofusi in un’unica, apparentemente innocua formina tonda. In realtà ci vorrebbe il porto d’armi.
“Usali se sei in difficoltà,” mi dice il Maestro Yoda.
“Usa la forza.”
Il tutto avviene con una solennità propria di un passaggio consegne di una saggezza antica di millenni, o di un’arma segreta dai poteri inenarrabili.
Dò un’occhiata alla cartina: in serata devo trovarmi a Livorno da Mauro e Linda, o meglio entro le 18, dato che la coppia di amici abita fuori città e lui stacca dal lavoro a quell’ora. Quindi già spingersi a nord nell’arco di una sola giornata è già un azzardo. Per di più da solo e con le Alpi Apuane di mezzo. Decido quindi di tenere d’occhio l’orologio e munirmi di varie possibilità di treni che mi possano condurre a Livorno in tempi utili. L’obiettivo è tornare verso Lucca, poi Castelnuovo in Garfagnana, quindi sfidare il valico che oltrepassa le Alpi Apuane per poi scendere verso il mare, verso la ferrovia e verso Massa. E di prendere il treno in una di questa città se ci sono problemi.
Molte, troppe incognite.
Cocciuto ma non pienamente convinto della mia scelta, li saluto al binario di Pisa Centrale, e mi avvio verso Lucca con le gocce che mi picchiettano il casco, prendendo una strada diversa da ieri. Un lungo rettilineo alberato, incerti zigzag tra case di campagna.
Degli immigrati aspettano pazienti la corriera per andare al lavoro.
Sono le nove e mezza quando mi ritrovo a fare la seconda colazione a San Giuliano Terme, dove vengo sfamato a cornetti da due signore dall’aria scostante.
Al mio ingresso a Lucca il tempo è ancora ostile, quindi mi fermo per compiere un rito propiziatorio che avevo in mente già dal giorno seguente. Avevo già stampato da casa di Gioacchino il famigerato logo stilizzato del ciclista a propulsione autonoma su due fogli A4, e da lì a fermarsi in una copisteria per comprare scotch e cartelline trasparenti il passo è davvero breve. Per l’occasione di questa tappa ascetica e solitaria, da questo momento in poi la mia bici viene così fregiata di un simbolo di riconoscimento inconfondibile, come uno stemma nobiliare.
Superato un brutto rettilineo infestato da camion e pioggia all’uscita da Lucca, e scampato a una ben poco onorevole perdita di equilibrio causa errore nel prendere le misure con un marciapiede, arrivo a Borgo a Mozzano risalendo il corso del fiume Serchio.
È proprio il fiume a dirmi che sono in salita. Appena percettibile, ma costante.
Giro di ruota dopo giro di ruota, il paesaggio comincia a farsi più interessante. Il traffico diminuisce, gli alberi assumono forme più affusolate, l’aria si profuma di fresco. Anche il fiume, da giallo ocra che era a valle, riprende il suo colorito verde cielo. I paesini assumono caratteri fiabeschi. Gli orizzonti finalmente si fanno diagonali.
Comincio a essere contento della mia scelta.
Percorro una strada a serpentina attraverso gallerie scavate nelle rocce che scendono verso il solco scavato con tanta pazienza dal corso d’acqua. A volte l’uomo sa mantenere la sua presenza con toni discreti e poco invasivi, e il nastro d’asfalto si snoda in maniera rispettosa del paesaggio.
Sporadici ponti salutano il nuovo cambiamento meteorologico, e il sole torna a sorridere. Compaiono le prime forme frastagliate e contorni aspri tipici delle Alpi Apuane. La salita, anche se sempre lieve, comincia a farsi sentire. S’impone una pausa stroppwafels per reintegrare gli zuccheri in corpo. Passano così Ponte della Maddalena detto Ponte del Diavolo chissà perché, Ghivizzano, Bolognana e Gallicano. Ogni ansa del fiume rivela nuovi angoli, la salita mi impegna quel tanto che basta a ricordarmi che devo mantenere un ritmo accettabile per gli orari dei treni di ritorno.
La solitudine stimola pensieri.
Accanto alla maestosità della natura, compaiono anche luoghi buffi: nei pressi di una rotatoria, mi trovo davanti un cartello che recita con fierezza:
PIZZA E CUCINA da SILVIO dei “RAGAZZI DELLA VIA GLUCK” di CELENTANO
Poco più in là, invece, le indicazioni per la Grotta del Vento trovano nel mio logo un’esegesi complementare.
Quando arrivo al bivio per Castelvecchio, sulle prime la scarsa memoria non mi aiuta, e non riesce a risalire ai tempi del liceo, ma quando vedo le indicazioni per la casa natale di Pascoli ricollego.
Ne approfitto per una sosta, e mi incammino per una ripida scalinata che conduce a un casolare che ha l’aria di avere una certa storia. Affacciata alla finestra, una vecchina mi vede arrivare e mi domanda con gentilezza se ho bisogno di qualcosa. Le chiedo informazioni sul poeta suo compaesano, ci fermiamo un po’ a parlare, mi augura buon viaggio.
Ancora un po’ di salita, ancora qualche ansa, ancora qualche ansimo. Castelnuovo mi appare come una visione, nebbie rade e ponti ricurvi, muschio sui muri. È l’ora di pranzo, la tabella di marcia è rispettata, la Garfagnana è espugnata. A Castelnuovo c’è una stazione ferroviaria, una settantina di chilometri di salita li ho fatti, potrei anche ritenermi soddisfatto.
Ma il verde è famelico dei miei occhi e gonfia il cuore.
Chiedo a un ragazzo in attesa della corriera quanti chilometri manchino a Massa, e com’è la strada per arrivare al mare. Mi risponde che saranno una sessantina, e che la salita è bella dura.
Giro un po’ il paese in cerca di cibo, è passata l’una da poco e dei cinesi stanno smontando le loro bancarelle da mercato. I loro furgoni pieni di magliette con scritte che imitano marchi alla moda coprono il monumento a Nicola Fabrizi.
L’unico banco rimasto aperto è gestito da tre affabili signore di mezza età. Non sono originarie del posto, e anche loro stanno chiudendo i portelloni del loro camion/panineria. Gli è rimasta poca roba, ma mi faccio bastare uno spiedino, servendomi dalla fontanella pubblica per ricaricare acqua nelle borracce.
A questo punto, è d’obbligo un caffè e un bicchiere di rosso ai tavolini di un bar. Scambio qualche parola con una giovane coppia al tavolino accanto al mio. Lui è di Napoli, lei di Castelnuovo. Anche loro si dimostrano affabili e simpatici. Il verde è famelico dei miei occhi e gonfia il cuore.
E non appena lascio il paese, la salita aumenta decisamente di intensità. Lo testimonia anche il colore del piccolo torrente che costeggia la strada, che ora è azzurro cielo. Il cielo, invece, è grigio. Qualche tornante in più e mi coglie un violento temporale, che mi fa tornare i dubbi sulla bontà della decisione di proseguire per la montagna.
Quando pedali solo hai molti più dubbi.
Spingo con più insistenza, il suono del mio respiro affannato si fonde con lo scroscio dell’acqua sulle foglie, la pioggia mi appiccica al corpo la maglia verde messa in occasione delle salite (in realtà sono due giorni che ce l’ho addosso). La busta dentro la quale tengo incartato il sacco a pelo sembra tenere. Per vari chilometri sulla SP13 ci siamo solo io, monti e pioggia che si unisce all’acqua del torrente. Il temporale diminuisce di intensità lasciando una nebbia quasi tangibile sopra il borgo di Isola Santa, una manciata di casette spettrali buttate intorno a una diga. Non c’è anima viva.
Le finestre sono tutte abbassate, serrati i portoni, anche il campanile dell’unica chiesa è immobile, l’unico suono è la ritmica cantilena dei pedali. Si sale, si sale ancora.
A un certo punto, la fessura scavata nei monti dal torrente si divarica, si apre una vallata, e con lei un bivio. Trovo le indicazioni per il lago di Vagli, e poi quelle per l’omonimo paese, che è diviso in due parti: Vagli di Sopra, Vagli di Sotto. Due consigli, o esortazioni.
Due signore tedesche rientrano nel loro fuoristrada coi loro cani al guinzaglio.
In base ai miei calcoli, non dovrebbe mancare troppo al valico. Ma non vedo nessun cartello o segnale che mi dica che la salita è finita.
Mi trovo davanti un cunicolo nero, una buia galleria costruita alla vecchia maniera nella quale la strada si tuffa come se non ci fosse un domani. La pendenza a poco a poco diminuisce.
Entrato nell’antro, mi ritrovo stalattiti gocciolanti sopra di me, immerse nel buio totale. La sensazione è simile a ciò che doveva avere in mente Platone quando parlava del mito della caverna, o a quella che prova un ragazzino alla casa stregata in un luna park. L’oscurità umida trasforma la salita prima in pianura, poi in lieve discesa. In maniera quasi mistica, il passaggio è stato compiuto senza che me ne accorgessi.
Mi ritrovo al di fuori del tunnel, il grosso è fatto. Davanti a me si apre una vallata immensa e un cielo che dà i primi accenni di sereno. Ancora uno sguardo all’orologio, sono le quattro e mezza e ho fatto 90km. Per andare sul sicuro, decido di evitare Massa e di dirigermi verso la stazione di Pietrasanta, dove il mio treno passerà qualche minuto dopo. Non resta che lanciarmi in una discesa impetuosa tra ciclisti professionisti di mezz’età colorati e sfolgoranti, che mi vengono incontro risalendo in senso opposto. Quando il vento e le lacrime che mi solcano le guance me lo consentono, saluto branchi di motociclisti, che forse in virtù dell’affinità da due ruote, mostrano la loro simpatia salutandomi.
Scendo di quota, risale la temperatura, l’intero universo sembra asciugarsi al placido sole di fine maggio: Gli ultimi chilometri di pianura verso Pietrasanta sono trionfanti, e il regionale verso Pisa si srotola come un tappeto rosso dopo 115 km in solitaria.
Treno Pisa/Livorno: uno slavo sui cinquant’anni, che sembra aver ricevuto più di un colpo dalla vita, osserva a lungo la mia bici, ferma lo sguardo sull’adesivo di Parigi sulla canna, e finalmente esordisce:
“Ma come hai fatto a raggiungere la Francia con una bici così scadente??”
Scadente a chi, ahò? penso tra me e me, ma gli rispondo che la mia bici non è poi così male.
Ma lui sembra non essere più interessato alla qualità, e svia il discorso sui viaggi:
“Io pure ho fatto un viaggio in bici, da Livorno sono arrivato in Europa in tre giorni”
In Europa? E Livorno dove sta, in Asia? Ma forse intende nel primo Stato che non sia Italia?, continuo a pensare tra me e me, ma lui continua:
“Così non pago il biglietto, mi hanno pure tolto là patente… non c’è tanto lavoro, vafanculo a tutti!”
In quel momento entra gente, e lui si interrompe dicendo “Gente si arrabbia di questi discorsi”, e mi ammicca con fare complice, come se dovessi tenere il suo segreto.
Livorno è una vecchia amica, un posto sempre familiare anche se ci torni a distanza di mesi o anni. Più semplicemente, è la terra in cui il Vernacoliere conta più del Corriere della Sera. Quindi è il traguardo ideale per questo tour toscano, perché ogni viaggio deve avere un traguardo, e più simbolico è, meglio è.
Ho appuntamento con Mauro al concessionario in cui lavora, poco distante dal porto. La sua accoglienza è un dono, quasi una ricompensa della fatica di oggi. Lascio la bici in magazzino, e mi porta in scooter a casa sua, dove mi aspetta anche sua moglie Linda.
Il resto della serata è chiacchiere, coccole di cani, racconti di pantere in fuga nella campagna livornese e cene in trattoria.