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Pozzallo – Modica – Agrigento

Partenza
Pozzallo
Arrivo
Agrigento
Giorno di viaggio
11
File gpx
Chilometraggio
49 Km
Dislivello in ascesa
707 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Paese
Fondo stradale
Le mie bici

L’alba ci coglie tramortiti al camping Di Vita Vera, dopo una nottata martoriata da balli latino americani dal villaggio turistico della spiaggia vicina, Despacito in testa a tutti, come un’eterna dannazione. Di Vita Vera, un nome, un programma.

Siamo nel lembo più a sud d’Italia e l’aria profuma d’Africa. I colori sono avvolti da una patina biancastra, l’orizzonte è tremulo e vago, il vento è un’implacabile ondata calda e porta con sé sabbia sahariana. Ghibli? Può essere.

Cerchiamo di premunirci mettendo del ghiaccio in corpo prima di metterci in viaggio: la granita a colazione non è nient’altro che un espediente contestualizzato in base al clima siculo, nasce dai romani che conservavano le nevi dell’Etna per poi aromatizzarli con la frutta. Ma a Marina di Modica il cremolato di ricotta è qualcosa di più di una granita: è un’esperienza sensoriale, un percorso di conoscenza e avvicinamento al Nirvana, è l’apoteosi della pecora che si fa ghiaccio e neve.

Il Bar Giunta a Marina di Modica ci concede questa rarità, trovata solo qui in tutta la Sicilia.

Con l’animo più leggero e lo stomaco più fresco ci accingiamo a metterci in cammino, quando una signora settantina ci ferma estasiata: ha l’aspetto dolce e spaurito, ed è evidentemente ammirata dal nostro carico di bagagli sulle biciclette.

“Anche io faccio della bici, ma le ruote sono dure… non capisco cos’ha, a Pozzallo non me l’hanno voluta mettere a posto… io sono anziana, e non ce la faccio”

Mentre parla, scatta il pit stop alla vecchia bici da passeggio della signora, le oliamo la catena ricoperta di ruggine e le gonfiamo un po’ le gomme quasi a terra. Mentre compiamo la nostra buona azione quotidiana, forse per compensare un karma di turpitudini reiterate, quella si profonde in ringraziamenti commossi: “è Gesùccristo che vi manda… madonna quanto siete gentili… siete la Provvidenza, il Signore vi benedica, ciao gioiuzza… manco i figli mia mi volevano aiutare…“, con voce sempre più stridula e grata. Ci saluta stringendoci le mani, con gli occhi lucidi.

Ci incamminiamo per il lungomare per qualche chilometro di Sibit, la ciclovia Siracusa-Trapani che ci accompagnerà per i prossimi giorni, e ci fermiamo nei pressi della Mànnara: questo vecchio mattonificio fu incendiato per una ripicca mafiosa, e ha guadagnato popolarità dopo essere stato usato per alcune scene del Commissario Montalbano, uno dei tanti luoghi di Camilleri della costa meridionale sicula.

Doveroso il pellegrinaggio, così come un tuffo nelle acque azzurre proprio di fronte alle sue mura fatiscenti e bruciate dal sole. Sugli scogli scambiamo qualche chiacchiera con Marco, un corpulento ragazzino sui dieci-undici anni.

“Di dove sei, Marco?”, gli chiede Fiorella.
“Di Modica, al paese vecchio.”
“Modica? Ci dobbiamo passare oggi! Ti piace il cioccolato? Ci consigli un posto buono?”
“Eh, io sono allergico al cioccolato, se lo mangio muoio, devo prendere un farmaco che si chiama Bentelan. Però tanto a me piace di più la crema.

Poco prima del bivio per Scicli, ci dividiamo: Giuseppe cavallo pazzo punta a proseguire lungo la costa per Punta Secca, dove c’è la casa di Montalbano, per proseguire il pellegrinaggio poliziesco. Noi affrontiamo la salita verso l’entroterra sotto un sole ormai cocente.

Scicli è stata distrutta dal terremoto del 1693, e questa sciagura fu il pretesto per ricostruirla più bella di prima, rendendola una delle perle del barocco di questa zona della Sicilia: facciate giallastre di chiese ricurve in un paesaggio quasi lunare, edifici bassi e chiari in una silente ma costante resistenza ai raggi del sole. Come dice Vittorini, “La città di Scicli sorge all’incrocio di tre valloni, con case da ogni parte su per i dirupi, una grande piazza in basso a cavallo di una fiumara, e antichi fabbricati eccesiastici che coronano in più punti, come acropoli barocche, il semicerchio delle altitudini…”

Fu araba, normanna e aragonese, e ognuno di questi padroni lasciò la sua impronta nella struttura dell’abitato.

Per Modica si sale ancora: un nastro di asfalto liscio e ricurvo che sale colline di ulivi con tornanti armonici, in un paesaggio irreale e desolato: una strada bellissima con traffico inesistente, che mischia la Puglia all’Arabia, ci accompagna infine nella celeberrima Città del Cioccolato.

Modica è un altro gioiello barocco che nasconde le sue abitazioni dal caldo incastonandole tra le rocce, e insinuandosi in una gola arida che ricorda un pueblo latinoamericano. Da qui scegliamo di saltare la costiera tra Gela e Licata prendendo il treno per Canicattì, quindi di Modica facciamo in tempo a vedere il duomo e Bonaiuto, la “più antica fabbrica di cioccolato in Sicilia”, e di depredarla di alcune delle sue creazioni – cioccolato alla vaniglia, allo zenzero, al limone o alla mandorla.

Durante la tratta in treno sale un altro cicloturista, che scambiamo istintivamente per Giuseppe: non è lui, ma Ignacio, spagnolo partito da Barcellona, passato per la Sardegna  e diretto a Catanzaro da alcuni amici. Spicca subito la differenza di atteggiamento e di attrezzatura (“io abito a Salamanca, quindi il Portogallo è quasi sempre l’inizio dei miei viaggi” – “Ah, noi di solito partimo da Tivoli o da Priverno“).

Il resto del tragitto ci impone sonno da oscillazioni della carrozza, mentre fuori sfila la Sicilia di Verga, quella più arida e vera. Il capotreno ci sveglia per chiederci i biglietti, sorprendendo una scia di saliva agli angoli della bocca. Evidente la pietà nel suo sguardo.

Canicattì: il posto lontano per antonomasia. Ma che abiti, a Canicattì? Se continuo un altro po’, arrivo a Canicattì. In realtà a Canicattì non c’è nulla, e noi ci dobbiamo passare due ore in attesa della coincidenza per Agrigento bassa.

Canicattì è un paese in cui le professioni principali sono quella del barbiere, del gommista e del bombolaro del gas – ovviamente, oltre a quella del barista. Il primo ascolta e mantiene segreti e confessioni, e mantiene anche baffi e basette inappuntabili, in vista del prossimo matrimonio o funerale; il secondo e il terzo garantiscono la mobilità e la sopravvivenza – qui tutti si spostano in macchina, e il gas nelle case non è arrivato. L’ultimo approvigiona il male di vivere, le chiacchiere, il taglio e cucito e l’urgente bisogno etilico della popolazione, la cui età media sembra aver tralasciato l’età adulta – adolescenti o anziani, che si spartiscono il territorio per necessità prima ancora che per tolleranza reciproca. Anche i loro passatempi – biliardino, grappini, vedetta – sono invero molto simili.

Non esiste angolo della città che non sia sorvegliato da un corpulento pensionato dotato di sedia in plastica; non esiste azione, sguardo o fatto che passi inosservato.

A Canicattì esistono insegne, prodotti e scritte che a malapena ricordo nella mia infanzia: il cineteatro Odeon, le stirerie, i ciabattini, tutti luoghi o professioni che la globalizzazione non ha raggiunto. Una Renault 5 funzionante ci catapulta subito in un’epoca vissuta soltanto di striscio.

Gli automobilisti di Canicattì guidano tutti con una mano sul clackson per salutare e l’altra al cellulare, e quando accostano a un forno per fare incetta di rustici lasciano il motore acceso, forse per paura che una volta spento non si riaccenda.

Nel frattempo arrivano notizie da Giuseppe: ha percorso tutta la costiera, visitato casa di Montalbano, si è fermato in un bar che conservava fresco il ricordo del passaggio di Massimo, qualche ora prima (“Sei amico di quello che è passato prima? è romano, se chiama Berardi me sembra, voleva solo latte pastorizzato!“), e ha perso il nostro treno perché convinto fosse più tardi.

Arriviamo ad Agrigento bassa che è buio da tempo: ci tocca risalire per Agrigento alta, e lanciarci in discesa nel buio della Valle dei Templi. I tornanti nell’oscurità, il profumo improvviso di liquerizia e le sagome illuminate del colonnato dorico del Tempio di Giunone ci riportano subito col pensiero a Delfi, in un mondo mitologico e senza tempo. Brividi lungo la schiena, siamo di nuovo in Grecia.

Camping Nettuno: Agnese ci attende qui da stamattina, dopo una giornata di mare e relax in solitaria. Non basta la difficoltà mentale di uscire da un viaggio, per tornarci in corsa tre giorni dopo ci vuole proprio testardaggine. O una perversa forma d’amore. Il campeggio è un vasto declivio ombreggiato che degrada fino alla spiaggia, dove – a sfregio del suo nome – l’ulivo è il vero sovrano. A Nettuno-Poseidone infatti l’ulivo non deve stare molto simpatico, dato che grazie a quel dono Atena gli sottrasse il patronato della città che porta il suo nome. Ci raggiunge anche Giuseppe, che è stato trattenuto da un gruppo di vecchietti a un bar. “Da Napoli vieni? Minchia, tutta Adriatica hai fatto!”

Il tempo di montare le tende e mettersi il costume, e ci tuffiamo per una nuotata liberatoria tra le acque tranquille, per lavare via la fatica e il caldo della giornata. Quasi mezzanotte.

Una scia argentea ci mostra il luogo in cui la luna si abbraccia al mare, lì dove Iside e Poseidone si scambiano effusioni. Occorre restare almeno due notti, fuggire da qui sarebbe un atto empio nei confronti degli dei.

Foto