Roma / Cagliari
Via di qua, via di qua, l’estate bussa forte.
È metà aprile ma il vento è tiepido e porta già con sé il profumo del grano maturo, il tempo grida viaggio da tutta la settimana e le maniche corte girano per Roma. Come non organizzare una fuga nell’isola più antica e fiera d’Europa? E come non scegliere la costa più spopolata e sconosciuta per far cigolare le catene?
Ebbene, dopo averci illuso per due settimane con parvenze d’estate e invogliato alla fuga ciclistica, il tempo di lunedì ci fredda con pioggia e ribassi delle temperature. Ma l’entusiasmo rimane alto, stavolta il mio compagno di viaggio è Salvatore, che ha sangue sardo per parte di padre.
Il percorso scelto stavolta si snoda sulla costa del Sulcis-Iglesiente, nel sud-ovest dell’isola, l’angolo più remoto del nostro Paese (del nostro Paese?). Parlare della Sardegna senza luoghi comuni è un’operazione praticamente impossibile. Parlare della Sardegna vera dei contadini e dei nuraghe in contrapposizione a quella dei vip della Costa Smeralda, fin troppo facile. Così come lo è dire semplicemente che in certi luoghi esiste un’energia primigenia che ricade a pioggia su tutto ciò che cresca viva e muoia sul suo suolo. Ma non per questi motivi bisogna smettere di elogiare Ichnusa, il piedediddio come dice la leggenda, e se lo dice una leggenda un motivo ci sarà.
Una volta tanto, parto con la solita frenesia nei preparativi con ragguardevole anticipo, caricando la bici il giorno prima e lasciandola a prendere l’umido in balcone. La discesa per via Portuense verso l’amata Stazione Trastevere, dove ho appunto con Salvatore proveniente da Nomentana, è lenta e cauta: non metto i bagagli sulla bici da un po’, e sono abituato a schivare le auto con molta più leggerezza. Il traffico è nervoso a causa della pioggia.
Stazione, la vecchia bigliettaia che pare Angela Lansbury nega il rimborso a una turista parlando in inglese maccheronico. Una signora tenta di scavalcarmi in fila alla cassa, ma la ricaccio indietro con nonchalanche usando il manubrio come scudo.
Attendo Tore al binario 2, il treno è sempre il solito amatodiato regionale Roma Termini / Pisa Centrale, ferma in tutte le stazioni. Un signore ci consiglia di aspettarlo a inizio banchina, come se non lo sapessimo, “che il vagone per le bici è in testa al treno”. Arrivano i vagoni, la mandria si accalca, scende il capotreno dal marcato accento toscano: “Vaccaboia ragazzi, le bici vanno in coda! Fate presto che vi aspettiamo!” Appunto.
È il primo viaggio in bici per Salvatore, e durante il tragitto per Civitavecchia confrontiamo le reciproche attrezzature. Forse proprio perché è il primo, lui è molto più attrezzato di me. O forse sono io.
Biglietti traghetto pronti, freni appena cambiati, catena oliata.
Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene.
Ci diciamo così proprio mentre al finestrino appare il cimitero di Civitavecchia.
Arrivati in stazione, percorriamo tutta la banchina in cerca di una rampa per bici o disabili, categorie che in Italia sono accomunate dalla presenza di ingombranti ruote e dalla mancanza di considerazione sociale.
Troviamo alla fine un attraversamento binari, e già ci accingiamo a passarlo quando un zelante agente della polizia ferroviaria ci ferma richiamando la nostra attenzione con un fischio da mandriano.
“Usate le scale!”
Il lungomare di Civitavecchia ci accoglie con una serie di nuvole a campo lunghissimo, le cui prospettive ci ricordano delle distese marine tra noi e l’Isola.
In porto i controlli di sicurezza sono più scrupolosi del solito, l’effetto-Boston si fa sentire, e ai pericolosi ciclisti viene chiesto di smontare sacche e zaini per passarli nel metal detector. La severità del nastro che passa sotto i raggi x genera una grottesca contrapposizione con la poca serietà delle guardie, divertite e forse un po’ imbarazzate dalle disposizioni e dai regolamenti.
Una scolaresca malvestita appena scesa dal traghetto restituisce sotto forma di chiasso l’entusiasmo della gita appena conclusa.
C’è evidente mancanza di comunicazione tra gli operatori portuali e gli agenti del controllo sicurezza, malgrado i primi cerchino di rassicurare i secondi sulla nostra mancanza di pericolosità.
“Li abbiamo già controllati noi!”
Siamo forse una falla nel sistema?
Riusciamo infine a imbarcarci in stiva e imbragare le bici con delle funi senza altre complicazioni burocratiche.
A bordo, una famiglia dall’accento sardo intrattiene i bambini facendoli ballare e utilizzando un cellulare per far sentire loro Gangnam Style. Io e Salvatore ci guardiamo perplessi.
Finalmente il tramonto e le vibrazioni del motore assolvono tutti mettendo in moto la nave sulla piattaforma mediterranea, mentre scivoliamo via dal continente ormai protetti dall’imbrunire.
Notte sul traghetto, i pochi astanti sono distesi sui divanetti. Due ragazze rassettano i sacchi a pelo, dei bengalesi dormono placidamente, noncuranti del volto lasciato esposto agli implacabili faretti al neon. Un signore di mezz’età si raggomitola nel suo cappello. La televisione urla comizi di Beppe Grillo, indisturbata finché un uomo anziano non la spegne, sbuffando. Silenzio. Il signore fa un gesto di sollievo, come a dire “Ah, ce ne siamo liberati, non se ne poteva più”.
I due ragazzi appena entrati in sala si alzano, e con fare ironico uno dei due dice “Mi sa che ce ne dobbiamo andare, ci cacciano”. L’altro gli fa: “Dai, non fare il polemico!” Prendono due direzioni diverse, “Ci vediamo domattina!”, l’accento è del nord.
Io osservo tutta la scena sonnecchiando da dentro il mio pietoso sacco a pelo rosa/rosso della Decathlon, e scrivo tutto.
Talvolta le navi possono diventare allegoria di una nazione, specie quando sono alla deriva.
Prime ore del mattino. Il pianto intermittente e insistente di un neonato fa recuperare punti alla figura di Erode.