St. Hilaire de Villefranche / Bordeaux
Una tappa decisamente lunga, nata con l’esigenza di compensare l’ingenerosa deviazione dalla traccia che mi sono dato, e per rispettare la siberiana tabella di marcia con la quale sono partito. Quella notte devo arrivare lì, quella successiva lì, costi quel che costi. Ma che è, un viaggio in bici o una marcia forzata? Manco avessi un appuntamento a Barcellona!
Appuntamento o no, stasera devo essere a Bordeaux, ed essere risalito di una ventina di km a nord di Saintes mi separa 140 km dalla mia meta. Jean-François è il nome del mio ospite di stanotte, mi ha confermato in maniera sbrigativa e lapidaria via messaggio qualche giorno fa, per poi sparire alle mie richieste di conferma. Vabbè, intanto mi avvio che la strada è tanta e la mattina è il momento giusto per barare.
Ritornato a Saintes, dopo una breve consultazione di mappa e chilometri decido di accorciare il mio percorso a pedali montando la bici in treno fino a Pons. Un’altra spesa imprevista, che non avevo alcuna intenzione di fare. Vedo il file zip delle campagne che mi avrebbero atteso scorrere veloci dal finestrino, mentre reggo per il telaio la mia pesante compagna di viaggio carica di borse, attrezzi e adesivi dei posti toccati finora (il bianco fastidioso della mia Collalti avevo proprio deciso di coprirlo così, un posto dopo l’altro, e quando ero partito già recava gli stemmi di Olanda, Belgio e Francia).
Sceso dal treno, l’inesorabile campagna francese continua a innervosire con i suoi continui saliscendi, quel seghetto altimetrico che non ti rilassa mai, fatto di brevi pettate in rettilineo, di neanche un chilometro, e discese uguali che non ti lasciano neanche il tempo di rilassare il quadricipite, ripetute ad libitum come un’onda corta. Siamo ora nella regione dei toponimi in -ac: sulla mappa appaiono e passo attraverso villaggi come Plassac, Consac, Semoussac, sperando di non finire in un cul-de-sac. I giorni di solitudine si fanno sentire, e ogni tanto squarcio il silenzio con urla scomposte, cantando canzoni stonate. Mi sto avvicinando a Blaye e alla Gironde, il gigantesco fiordo alla confluenza della Garonne e della Dordogne, due fiumi già grandi di per sé: una specie di mare interno, sempre di quel colore giallastro che ricorda le alluvioni, apparentemente immoto ma in realtà screziato da una serie di onde dalla direzione incerta. Un lunghissimo ponte a travi in acciaio lo attraversa, dando a chi ci pedala sopra la sensazione di mal di mare.
Ancora una serie di sobborghi, sempre più frequenti, sempre meno campagna: l’aria di Bordeaux si preannuncia in modo grandeur, sinfonico e maestoso nello spettacolo della Dordogne nel pomeriggio morente. Arrivo sotto casa di Jean-François in centro, ma nessuna risposta al citofono, né ai messaggi, né al telefono. Decido di cenare lì sotto, sperando non si sia dimenticato, in un chioschetto di kebab mentre cala l’oscurità.
Finalmente un suo cenno di vita, ma mi dice che ha avuto un grosso problema, il suo francese proprio non lo capisco, ma mi pare di capire che un suo amico sia in ospedale perché deve partorire la compagna, o forse deve partorire il suo amico, non lo so ma gliela dò per buona. Mi dice che se voglio dormire da lui purtroppo devo aspettare il suo ritorno a casa verso mezzanotte, si scusa ma sono cause di forza maggiore. Sono le nove passate, alternative non ne ho molte, gli dico che va bene, ci vediamo a mezzanotte da lui.
Cerco di cogliere il lato positivo dei centoventi chilometri di vento e saliscendi della giornata, e gonfio di kebab e coca cola mi faccio un giro per il centro di Bordeaux fino alla sua maestosa cattedrale gotica, che appare spettrale e quasi sospesa nel tremolio dei lampioni. Poca gente per strada: le città francesi, con rare eccezioni, muoiono al tramonto per risorgere all’alba. Finalmente arriva l’ora dell’appuntamento, sono esausto e ansioso soltanto di un posto dove buttarmi: sgommando da lontano arriva un furgoncino bianco, e mentre il mezzo ancora è in movimento il finestrino si abbassa e ne esce una testa calva, giovane, trafelata per salutarmi.
Si scusa ancora, ridice ancora una volta nel suo francese concitato del suo problema dell’amico che ha partorito, mi mostra in maniera sbrigativa il divano del soggiorno, il bagno e se ne va a dormire dicendo che domani uscirà molto presto e posso restare quanto mi pare. Addio Jean-François, ti ringrazio dell’ospitalità ma probabilmente non ti conoscerò mai meglio di così. Notte, buio, per fortuna il divano ha un’isola in cui allungare le gambe stanche.
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