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Tattone / Zicavo

Partenza
Tattone
Arrivo
Zicavo
Giorno di viaggio
5
File gpx
Chilometraggio
59 Km
Dislivello in ascesa
1540 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Paese
Fondo stradale
Diario
Cialtroni
Le mie bici

È questa la tappa più dura e più impegnativa per gli scalatori: circa 1200m di dislivello complessivo nell’arco della giornata, lungo una sessantina di chilometri. Dopo aver regolato e stretto i freni della mia bici, ed evitato zanzare di 7cm l’una nei bagni del campeggio, lasciamo la cicciona ai suoi porrrrci, per affrontare immediatamente la più dura delle salite, una decina di chilometri per 600m di ascesa. La strada si snoda in tortuosi tornanti e fonti che zampillano spontanee nella roccia, dando luogo a rivoli d’acqua. Finalmente l’allenamento comincia a farsi sentire, e sebbene più dura delle precedenti, la salita non ci ha dato eccessivi problemi; giungiamo così al passo, sfondando il tetto dei 1300 metri, e ci lasciamo inondare dal vento durante la pausa in un’incantevole pineta.
Rinfrescati e soddisfatti, ci lanciamo giù per la prima delle due discese della tappa. Giungiamo dunque a Ghisoni, dove spendiamo una quarantina di euro in generi alimentari in un minimarket: salamini, scatolame, baguette che leghiamo dietro ai bagagli, formaggi vari. Il posto è gestito da un simpatico paesano, la cui figlia è davvero notevole. Non manchiamo di commentare il fatto.
La città è un piccolo borgo in pietra, fa abbastanza caldo e ci fermiamo a mangiare all’ombra della piazza principale, dove troneggia una fontana con la statua di un Tritone. Dopo i chilometri, il sole e la salita, l’esigenza di espletare sostanze fisiologiche si fa urgente, così mi aggiudico il Premio Troll giornaliero – peraltro già favorito dalla nostra postazione di profughi, sdraiati sugli scalini della piazza a torso nudo armati di posate e pentole da campeggio tagliando salame e formaggio – pronunciando ad alta voce, davanti a turisti che probabilmente comprendevano l’italiano, la frase “ahhhhhh, adesso mi ci vorrebbe proprio una beeeeella cacata, pure davanti a questi”.
Premio della critica va invece a “Scrooge” Federico, che, ossessionato dallo spreco del cibo, e non avendo più appetito per mangiare il resto della sua baguette e prosciutto, lega alla meno peggio sullo zaino il pezzo di panino rimasto, lasciandolo a penzolare dai bagagli durante la salita successiva.
Usciti da Ghisoni, attraversiamo un bosco molto bello e ombroso, e ci colpisce il modo in cui è dislocato il cimitero fuori dal paese: molto caratteristico e affascinante, invece di essere  concentrato in un singolo luogo è sparso in “terrazze” familiari.
Attraversiamo altri fiumi e cascatelle, e comincia, dapprima dolce, la salita: qui incontriamo i primi maiali allevati allo stato brado, protagonisti loro malgrado dei rinomati salumi corsi. Tra i tornanti alberati la salita si fa sempre più dura, e io e Federico per non distogliere l’attenzione dalla fatica cantiamo, un verso per uno perché il fiato manca. Siamo a due passi dalla fine della salita  quando la Legnano decide che per oggi basta: gli spessori interni del rocchetto cedono, e la bici pedala a vuoto. Si inveisce ripetutamente contro l’ ”amatore” che mi ha “sistemato” la bici, procediamo a piedi fino al passo per poi lanciarci nella discesa, forse uno dei tratti più belli incontrati in tutto il viaggio, immerso in un maestoso bosco secolare e spezzato da antichi ponti in pietra. Affronto questa decina di chilometri grazie alla forza di gravità, senza pedalare e con il cerchione della ruota posteriore che comincia a deformarsi.
La discesa ci divide in distanza, io vado avanti solamente per inerzia, fino a quando arriviamo ingloriosamente a Cozzano, cittadina distesa in una vallata a pochi chilometri da Zicavo, dove c’è il nostro campeggio. Un gentilissimo paesano in jeep acconsente a trasportare me e la mia bici fino al campeggio, seguito dagli altri tre, per ragionare con più calma sulla situazione e montare la tenda. Il campeggio in questione, appena prima di Zicavo, è un luogo desolato e surreale: sicuramente abusivo, è situato nel bel mezzo del Parco Regionale della Corsica, dove non può arrivare nemmeno l’elettricità, e non esistono piazzole, solamente spiazzi nel bosco neanche recintati; al nostro arrivo non è presente nessuno, se non uno spaesato turista che ci dice che il proprietario sarebbe rientrato a momenti: ed eccolo arrivare dopo una decina di minuti, su un furgone, con un braccio un bambino addormentato.
È un uomo sulla quarantina alquanto singolare, parla un po’ di francese, un po’ di corso e un po’ di italiano, e ci prega di fare silenzio per non svegliare il figlio; ci indica le uniche costruzioni presenti a parte il suo “ufficio”, ovvero una cabina in legno con due docce e un lavandino.
“lì… ducce calde… lì… acqua boona… no il sapore, per bere, acqua booona.”
Appreso che siamo italiani, ci esprime la sua simpatia, ci fa vedere le sue scarpe da ciclista col
nostro tricolore e ci chiede se sappiamo qualcosa sulla morte di Pantani. Noi rispondiamo
facendogli vedere la bici rotta. Lui si offre di aiutarci a ripararla il giorno seguente.
A caricare la situazione, già grottesca di per sé, di un’inquietante componente onirica contribuiscono la presenza di animali liberi per il campeggio, un cane che ci si affeziona al punto da seguirci fino in paese per la spesa, ma non ritrovarci sulla via del ritorno (“E mo’ che gli diciamo, guarda ti abbiamo perso il cane perché ci ha seguito”), due capre e una sottospecie di cavallo-mulo, nominato immediatamente ideale cavalcatura di Francesco per la statura e la scarsa dignità.
Prendo la bici di Francesco, e con Federico intraprendiamo una disperata corsa per trovare ancora qualche negozio aperto, visto che in Corsica chiudono quasi tutti per le sette e mezza, ma tutto ciò che otteniamo è un paio di baguettes, altro pane tipico e del vino in cartone, da aggiungere allo scatolame che ci portavamo dietro da Ghisoni.
Dunque la prestigiosa cena che riusciamo a mettere insieme è composta per lo più da fagioli e
oscurità, dato che l’unica fonte di illuminazione nel raggio di chilometri sono le due piccole torce della mia bici mia e di quella di Francesco, le cui pile si scaricheranno presto.
Fa caldissimo, io e Federico decidiamo di non montare la tenda e di dormire all’aperto.
La drammaticità della nostra situazione raggiunge il culmine verso le 4 del mattino, quando vengo strappato al sonno sentendomi tirare per la mano, e istintivamente giro la testa per alzarmi e vengo morso o graffiato all’altezza dello zigomo. Ancora nel dormiveglia, scatto a sedere in preda al delirio, urlando “Eh no, ragazzi, e che cazzo, questo no, no!!!!!”
Poi rientro in me, mi passo una mano sul viso e sento umido, sanguino. Gli altri si guardano in giro cercando di capire cosa succede. Federico alza gli occhi al cielo: “Uh, guardate, da qui si vedono le Pleiadi!”
Gli altri tre, in coro: “A Federì, ma vaffanculo”
Finalmente qualcuno trova una torcia, e vediamo una volpe nella boscaglia, attirata dagli avanzi
della cena lasciata fuori.
Mi disinfetto, mi chiudo ermeticamente nel sacco a pelo, e passo il resto della nottata nel timore di altri attacchi a sorpresa.

Foto