Tivoli / Lago del Turano
Roma Trastevere – Alba. Attendo il treno sul quale già è salito Federico al solito binario di Stazione Trastevere, madrina di tutti i miei successi e fiaschi ciclistici. Scatto una foto alla mia bici carica per prendere una graziosa roscia seduta sullo sfondo.
Salgo sul treno, carichiamo, tutto avviene in perfetto orario, tutto fila liscio. Molto strano.
Roma Tiburtina – Infatti, giunti a Tiburtina perdiamo il treno per Marcellina/Palombara, a causa del tempo perso in fila per l’acquisto dei miei biglietti. Federico impreca per il sole che sarà già cocente quando monteremo in sella.
Sul regionale abbandonato a sé stesso, militari lentigginosi, capotreno distratti e dall’impianto delle vecchie carrozze polverose un’inspiegabile Cavalcata delle Valchirie che ci sprona alla tenzone.
Il convoglio si ferma, forse per consentire al conducente una prova microfono, interrompendo senza troppi complimenti un impotente Wagner.
La Rustica – “C’è un treno fermo davanti a noi a Guidonia, quindi non sappiamo dirvi quanto ci vorrà.” Cominciamo a meditare di scendere lì e farcela in bici da La Rustica. Tanto a noi ce piace, allungà. Mentre già siamo in procinto di tirare giù le bici dai vagoni, il capotreno riceve una chiamata al cellulare: “Lo spingiamo noi il treno fermo, restate che tra poco risolviamo tutto.”
Il militare lentigginoso si è già allontanato, diretto alla sua corriera per Bagni di Tivoli.
Pochi chilometri dopo, il treno si ferma di nuovo. “Ragazzi, scendete pure voi, venite a prendervi il caffè più buono della linea”
Marcellina/Palombara – Finalmente comincia il viaggio. E lo fa con 3/4 km di salita costante, che mi coglie alla sprovvista. Arriviamo così a Palombara con un minimo di affanno, poi un piacevole saliscendi schiude la spianata dell’Urbe sulla sinistra, mentre sulla destra rimangono colline coperte di ulivi; dietro di esse, si ergono i Monti Lucretili.
“Nulla vi è di più infantile e inutile che accelerare a fine discesa nel tentativo di evitarsi almeno una parte della salita, in arrivo con la rincorsa”: eppure continuiamo a farlo ogni volta.
Palombara mostra una geometria concentrica perfetta, disposta a gironi digradanti con un castello (anzi, un maniero: quando hanno quest’aspetto imponente e minaccioso si parla sempre di manieri) alla sommità.
Il ritmo è allegro, noi pure; il sole comincia a urlare.
Coatti locali ci guardano come fossimo alieni.
Moricone – Dopo aver fatto provvista d’acqua a un fontanile, arriviamo superando altre brevi salite in scioltezza fino a Moricone. La nostra strada tende finché può ad aggirare l’ostacolo dei Lucretili circumnavigandoli, conscia però dell’ineluttabilità di doverli prima o poi affrontare. Ma finché si può ritardare…
Sullo sfondo, il Soratte, gigante solitario nella pianura.
A Moricone ci fermiamo per una pausa e per compreare un po’ di provviste: mentre decidiamo cosa prendere e dove andare, la gente di passaggio ci dà risposte non richieste, con la massima naturalezza. Come a dire: se è dentro Moricone, allora ne siamo responsabili anche noi. Così ognuno dà la sua opinione su strada e cibo: e noi stiamo a sentire tutti.
Mentre io prendo un po’ di pizza al taglio da una timida ragazza leggermente in sovrappeso, Federico acquista mezzo chilo di albicocche a peso d’oro, giustificandosi così: “Però era simpatica, la tipa, quindi le ho preso queste, anche se non le volevo”.
La nomenclatura degli esercizi commerciali di Moricone – e della Sabina in generale – abusa della locuzione “non solo…” davanti al prodotto venduto, quasi la sbandierata offerta ulteriore voglia aggiungere una marcia in più, un quoziente-novità risalente ai tardi anni ’80, rispetto ai concorrenti in paese, il cui stile di marketing rimane fermo ai primi ’70, e rispetto anche ai negozi abruzzesi, dove vanno fortissimo i nomi di battesimo dei proprietari, forse a tenere salde le redini di una dimensione personale e umana del commercio, quella dove si “mette in conto” e poi si salda ogni tot.
Quindi, chi la spunterà? Nonsolointimo, Nonsolostampa, il meglio delle donne… e non solo, oppure Franca – parrucchiere, da Marzia – alimentari, Giovanni – macelleria, Pasticceria da Nina?
Dopo aver decimato le risorse di albicocche di Moricone (da provare: sintesi perfetta tra acerbo e maturo), ci rimettiamo in cammino: e qui cominciano i cazzi.
La Sabina Inferiore, come l’abbiamo chiamata per distinguerla dalla più ricca e rinomata zona a nord, quella di Poggio Mirteto, Fara Sabina e Passo Corese, sa essere infame con le altimetrie: strappi violentissimi, saliscendi illusori e brani di discesa così brevi da non permettere nemmeno al sudore di evaporare al vento, di nuovo salita.
Dai, è solo un dosso, ora finisce.
Dieci metri di pianura e nuovo strappo.
Peti copiosi in salita, da parte di entrambi.
Montorio Romano – Arriviamo così rantolando a Montorio Romano, dove su uno scorcio panoramico chiediamo a un’anziana signora piena di pieghe sulla pelle bruciata la strada per Scandriglia. Lei, come se stesse per rivelare un segreto ormai noto, ci invita a guardare là dove ci indica dal belvedere. Non avevo mai ricevuto indicazioni stradali in linea d’aria.
“Vede quella città laggiù? Ecco, prende quella strada bianca carrozzabile che vede lì e tiene sempre a destra”. Dopo aver più volte ripetuto il concetto, dandomi del lei mi domanda: “Indovina?” (trad. “ha capito?”) “Poi alla quercia gira a destra!”
Perplessi, imbocchiamo una ripida discesa, lamentandoci del fatto che questa consumerà i tacchetti dei freni.
Passiamo tornanti a inclinazioni impensate in mezzo agli ulivi. A fine discesa, veniamo attratti da un robusto ciliegio che lascia pendere le sue grazie non colte: s’impone un gesto che provveda a far loro onore, così passiamo una mezz’ora buona a cogliere e mangiare ciliegie enormi, per poi accorgerci dell’esistenza di un nespolo anch’esso pronto all’uso.
Prendiamo la deviazione “bianca carrozzabile” suggerita da Nonna Pieghevole, che si snoda per tratti ripidissimi e sterrati di bosco ombroso. Dura e affascinante (la strada, non la nonna).
Scandriglia – Arriviamo così a un altro fontanile alle porte di Scandriglia. Mentre riempiamo le borracce, Federico rimane affascinato dalla vista di un possibile monastero abbarbicato su un costone di roccia sopra di noi, quasi inaccessibile, che rimodella il profilo intero della montagna. Ferma dunque alcuni giovani bifolchi locali per chiedere loro informazioni:
– Scusate, cos’è quello lassù?, indicando la costruzione.
Silenzio interdetto dei due.
– Scusate, quella costruzione lassù nel bosco cos’è?
Uno dei due, alternando il suo sguardo tra lui e il suo compare, con voce esitante ed ebete risponde:
– Quella? …quella… era una chiesa.
– E come si arriva lassù?
e quelli, in coro, dopo lunghe occhiate tra di loro, che tradiscono l’evidente disagio per la situazione:
– non lo sappiamo.
A questo punto Federico decide che può bastare, li ringrazia e li saluta.
Con gli incontri immediatamente successivi, Scandriglia conferma la prima impressione di Federico di città abitata da “gente incapace di intendere e di volere”: un giovane meccanico che si ostina a darci del lei con fare ebete, e una coppia di vecchietti alla quale chiediamo informazioni per l’uscita dal paese in direzione Poggio Moiano; la signora, evidentemente la più mentalmente agile dei due, si fa protagonista del seguente scambio:
– Scusi, per Poggio Moiano?
– deve seguì per il cimitero, poi sempre dritto, passa un ponticello, poi a destra…
– ma trovo indicazioni?
– no, no!
con fare rassicurante, come a dire, tranquillo, che non le trovi!
La scena si ripete a voce più alta, la risposta è la stessa. Federico desiste anche qui, io non posso evitare di ridere loro in faccia.
Il vecchio che è con lei scoppia a ridere, dicendo “se vai ar cimitero ce vai subito, te butti de sotto e hai fatto!”; lei lo rimprovera, mentre noi pensiamo “A vecchio, scherza poco che tra un po’ tocca a te”
Ovviamente sbagliamo strada, finendo esattamente al cimitero.
Ci lanciamo poi in un’altra spettacolare discesa, tornando a cimentarci col solito infame saliscendi: le pendenze sono proibitive e continuate, e noi cediamo all’onta di scendere dalle bici e fare qualche centinaio di metri a spinta. Il vento rimbalza tra gli alberi.
Poggio Moiano – Il nostro ingresso in paese è sancito dalla fine della salita e da strade deserte; troviamo comunque modo di scambiare delle chiacchiere con un parrucchiere ciccione: “Al Turano? Ma annàtece in maghina, che è mejo!”.
Imbocchiamo quindi la Strada Licinese, che diventa oggetto di più d’una facezia: lo scoprire che gli abitanti di Licenza si chiamino Li Cinesi ci riempie di gioia, e non possiamo fare a meno di immaginare l’ipotetica scena in cui un passante domandi “Scusi, ma chi ci abita qui? Li cinesi?”.
I boschi tutto intorno ci vedono tagliare i tornanti in discesa verso il silenzioso Lago del Turano.
Ancora una curva, si perde quota, occhio a quel tornante che non ci sono i guardrail, guarda che bello laggiù, ma c’è anche un castello, occhio frena, e con passo spedito arriviamo puntuali all’appuntamento con la luce bronzea del tramonto che incornicia il ponte che attraversa il lago, in un paesaggio tutto è immobile quieto e affascinante.
Lago del Turano – Nello studiare il territorio alla ricerca di un posto discreto dove accamparci, entriamo a Castel di Tora. Ci sono due locali aperti nel raggio di una decina di chilometri, un ristorante e una gelateria; gente gentile, per niente diffidente, ci danno dei consigli su dove passare la notte. Dopo aver bocciato un’area sosta per camper che ci viene sconsigliata da due signore che abitano lì di fronte, ci appartiamo su un tavolino da picnic a bordo statale, sistemando i sacchi a pelo direttamente sul legno dei tavoli, per limitare l’umidità che con l’imbrunire comincia a farsi solida.
La notte è prepotente di stelle.
I rumori del bosco spiano i nostri nasi, l’unica parte che esce dai sacchi a pelo orfani della tenda.
Sembra di avere l’intera fauna dell’appennino accanto alle orecchie, eppure il senso che dà quel buio chiassoso è di protezione.