Tivoli / Luco dei Marsi
Ore 5.15, sveglia mentre c’è ancora la luna piena immersa in un blu chiaro. Solita discesa per via dei Quattro Venti nella semioscurità, e un ritardo di un quarto d’ora per sistemare il grottesco assetto di carico della bici, ottuso tentativo peraltro fallito, che ha come unico scopo quello di farci perdere il treno delle 6.43, costringendoci a ripiegare sulla corsa successiva e vanificando l’anticipo e il sonno a cui aveva eroicamente rinunciato Federico [sensi di colpa?]. Dopo aver caricato non senza qualche problema le bici prima in testa e poi in coda al convoglio, ci si ristora per colazione con succo e ciambelline, mentre fuori scorrono baraccopoli e paesaggi industriali. Passata Guidonia, le sagome appenniniche si profilano foriere di fatica e salita.
Arriviamo nella quiete assorta della stazione di Tivoli alle 8.20, e da lì imbocchiamo la strada consolare che da qui in poi prende il cognome di chi l’ha prolungata, la Tiburtina Valeria. Ampi platani ci parano il primo sole del mattino; giungiamo a un baretto isolato, dove ci serve una gentile e graziosa biondina sorridente. Si prosegue su freschi e ombrosi falsopiani. Ci lasciamo sulla destra la rocca di Castel Madama, con alcune rovine, e passiamo attraverso Vicovaro, dove un cartello millantatore ci indica: “Chiesa di Sant’Antonio Abate (con colonne antiche)” (sic.) Forse il resto della chiesa è dell’anno scorso, chissà.
Nella piazza ci fermiamo a fare provvista d’acqua e a comprare pesche e susine da un fruttivendolo in camion. Quando Federico gli chiede quant’è da pagare, il tizio risponde “ciaaaaaao”; “ah, offre la casa?” “Sì, ciaaaao”, e mette in moto. Peccato che le due pesche verranno dimenticate sulla panchina, perdendo così la gustosa opportunità di sali minerali gratuiti per dopo. Si comincia a salire verso Arsoli, e qui cominciano ad accoglierci i primi tornanti duri, mentre ci salutano paesini dignitosamente distesi su brulli costoni di roccia; dall’altro lato, ci sovrasta imponente la ferrovia, e, sopra di lei, l’autostrada.
Ad Arsoli è giorno di mercato, e il paesino è affollato di vecchi urlanti e matrone che fanno la spesa, quindi troviamo di buon gusto rimetterci la maglietta. Mentre Federico aspetta che un matusa riempia le sue bottiglie alla fontana, io mi concedo il lusso di acquistare ben due salsiccette di cinghiale a un chiosco. C’è un po’ di colore locale nelle vie del mercato: vecchi ululano compiaciuti di incontri di amici e parenti; ragazzine passeggiano mano nella mano con le amiche, vestiti firmati e fuori moda; una massaia accigliata porta a spasso due pesanti buste e due seni altrettanto pesanti; vigili urbani gironzolano autorevoli e soddisfatti. Noi acquistiamo un (altro) paio di pesche da una coppia di massicci trentenni burini in furgone (“solo una te ne piji? Ma pìjatene un chilo, no?” “E come se lo portamo?”), lui piuttosto scocciato, lei cordiale, si informa sul nostro percorso e dice di avere il padre che è di Tagliacozzo.
Salita a tornanti improvvisi all’uscita di Arsoli, il caldo comincia a opprimere, nel panorama la collina cede il passo alla montagna. Passiamo il bivio per Riofreddo, ancora leggera salita, e la provincia dell’Aquila ci dà il benvenuto con un cartellone blu. Giungiamo quindi a un altopiano e a un rettilineo, circondati da nuovi rilievi, più verdi, più aspri di prima. Nuova sosta a comprare un po’ di pizza in un forno e a fare scorta d’acqua prima della salita, quella vera. Una signora tonda e bassa, di mezz’età, attraversa la strada, imprecando contro gli automobilisti lenti a passare che le rallentano il transito: “Daje, va’, passa, vaffanculo… te stai a fa’ le seghe, te stai…”
Ottenute indicazioni dal gentilissimo sosia di Mark Knopfler incontrato nella piazza principale, incomincia la salita dei Colli di Montebove, che dai 600 m circa di Carsoli ci porterà al valico, a 1220 m s.l.m. Il vecchio dall’occhio azzurro, che è originario proprio di lì, ci dice che a volte fa ancora questo tratto in bici fino al paese, che è a 10 km e “solo” a 980 m, e ci mette un’ora per farlo. “Se il vecchio ci mette un’ora, – concludiamo – è nostro dovere metterci al massimo 50 minuti”. Ci riusciamo tirando come matti e superando agevolmente (malgrado il sudore che ci riga il volto) la prima parte di salita in 46 minuti netti. Per vari chilometri l’unico suono udibile è la catena che gira e il nostro respiro regolare. Federico comunque non è soddisfatto, sperava in un tempo più vicino alla mezzora.
Appena usciti da Carsoli, passiamo sotto a un vecchio ponte ferroviario ad arco; su uno dei pilastri la scritta a chiare lettere: “ABRUZZO DUE SICILIE, W I BRIGANTI”. Ci inerpichiamo per una stupenda vallata con borghi che sembrano caduti qua o là dall’alto, o poggiati delicatamente sui pizzi da attente mani immaginarie, per una serie di ondate verdi che si increspano in pettinature tra la vegetazione, seguendo fedelmente i dislivelli. Ed ecco che da qualche tornante meno attento a coprire lo sguardo ci si offre la rassicurante vista di Colli di Montebove, insieme di pietruzze bianche spaventate che si stringono l’un l’altra addossandosi nel punto più in alto in cui sia loro possibile arrivare. La strettoia dell’antica via Tiburtina che passa attraverso il paese ci accoglie con una brezza che scorre quasi intrappolata in essa; donne anziane si affacciano per vedere chi produca suono di passi e acciottolio di catene non sufficientemente ingrassate. All’ora del pasto tutto è silenzioso, tranne le posate e i bicchieri. All’uscita del paese, un signore gentile ci indica in distanze montanare la distanza all’imbocco per la strada principale verso il valico: distanze montanare vuol dire “300 metri là dietro”, che corrispondono più o meno agli 800 metri in salita disumana comunemente accettati dalle scale di riferimento internazionali, salita disumana che ci tocca fare a mano, vista l’ora calda.
Ci fermiamo su uno scalone ombreggiato da alberi di fico per consumare il nostro lauto pasto: parmigiano, una salsiccia di cinghiale, pizza bianca e mezza insalatissima messicana riomare a testa; dessert: due legnosissime pesche. Ci sdraiamo un’oretta a sonnecchiare col naso all’insù, la testa sulla pietra lastricata, la luce del sole filtrata dalle foglie di fico, il vento che fa compagnia, i fichi che ogni tanto cadono a terra svegliandoci.
Per passare le ore calde, perlustriamo un po’ il paese, arrampicandoci fino alle rovine del vecchio castello, di cui rimangono solo le bianche mura ormai mangiate dalla vegetazione. Dentro, un’ombrosissimo bosco di conifere e ruderi sparsi, un posto che sembra ignorato da anni. Tornando, il rituale della pisciata dall’eremo sopraelevato che non era riuscito dalla Rocca di Tolfa viene qui perpetrato dalle mura su una valle molto più alta e imponente, trovando così la sua piena realizzazione. Scesi giù dal castello, ci fermiamo a prendere un tè freddo da una vecchia in un bar, “Questo l’ho fatto io, eh”, precisa; poi ci indica una deviazione per un “bel fontanile, uno antico, co’ l’acqua bbona: mo’ adesso voi fate la salita, poi la strada gira a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, poi fate un bel drittolineo e dopo questo drittolineo imboccate sta stradina bianca, sulla destra…”
Le 16, il caldo e i suoi ruggiti si affievoliscono un poco, si riparte con gli ultimi 4/5 km di salita verso il passo. L’andatura è ormai slanciata, si fa una brevissima pausa al vecchio fontanile melmoso dove sguazzano pulci d’acqua e vespe, e finalmente, tra vampate di odori agresti non riconoscibili e pascoli punteggiati di cardi azzurrissimi, ginestre e rosa canina, arriviamo al Passo di Monte Bove, a 1220 m. Lì restiamo qualche minuto a contemplare il valico costantemente battuto da venti, e la casa cantoniera abbandonata. Volgendo lo sguardo indietro, Carsoli e la serpentina che porta ad essa ci ricordano la scalata appena compiuta; dall’altra parte, compare l’alto monte Velino, che sovrasta maestoso la catena di monti più vicina. Il tempo di asciugarsi il sudore negando questa soddisfazione al vento, di allacciarsi il grottesco casco e comincia a discesa. Ci immergiamo letteralmente negli umori del bosco, mentre al versante di Tagliacozzo già viene preclusa la luce del sole, che è già diretto a ovest a violentare altre notti. La discesa, invece, è meno violenta di quanto ci aspettassimo, e scivola via come un soffio, senza eccessiva velocità. Compaiono quindi le prime case di Tagliacozzo.
Superiamo il bivio per Capistrello evitando ulteriore salita, ci fermiamo in piazza a recuperare parte dei sensi, ancora intorpiditi dall’ebbrezza della discesa. Tagliacozzo è un affascinante e vivace centro turistico. Pure troppo vivace. Famigliole che hanno poco chiaro il concetto di precedenza a una fontanella, bambini urlanti su tricicli cigolanti, nonne scostanti e mamme ciarlanti, tamarri guidanti auto di cilindrata smodata. Cerchiamo un posto tranquillo dove bere un bicchiere di vino e parlare del percorso per cui intendiamo proseguire, e la presenza di vecchi sbandati e malvissuti ci sembra un ottimo criterio per la scelta del bar: purtroppo ci sbagliamo, il “bar Eugenio” offre solo poche bottiglie impolverate, un vuoto deprimente e qualche sguardo incuriosito. Niente vino, che fa male. Un po’ di sosta su una salutare ed economica panchina e si riprende la strada verso Luco dei Marsi, piccola località a ridosso della piana del Fucino, dove ci attendono i genitori di Sinibaldo, couch-surfer trovato in zona da Federico. Decidiamo di evitare Avezzano per il presunto traffico, passando per la più suggestiva strada che passa per Villa San Sebastiano e Corcumello, e attraversiamo una mite vallata. Vallata che si rivelerà essere una trappola, in quanto cul-de-sac. Infatti mentre godiamo dei 14 km successivi di lievissimi saliscendi alla luce annebbiata del tramonto, con le ombre che si allungano ad inseguire le ultime greggi rimaste, ci accorgiamo di essere finiti sul fondo di una conca, circondati come siamo da alture e rilievi da ogni lato. Fermiamo un vecchi pastore dall’andatura malandata che emana un forte odore di pecorino: il vecchio esalatore di caglio ci rassicura fallacemente riguardo l’esistenza di una galleria percorribile anche in bici, e questo basta a scacciare lo spettro di nuove salite. Nel frattempo l’ombra continua a invadere i pascoli posandosi su edifici e covoni.
Quando finalmente arriviamo all’imbocco della superstrada per Luco, constatiamo che è assolutamente vietata alle bici, oltre che impraticabile. Un altro passante ci dice che l’unico modo per arrivare a Luco consiste nel tornare indietro costeggiando i monti, svalicarli, tornare verso la già snobbata e pur vicinissima Avezzano, e di lì a Luco dei Marsi. Lo sconforto ci assale, l’ora e i chilometri già percorsi non rendono il proseguimento facile. Riprendo forze lacerando a morsi la seconda salsiccia di cinghiale comprata ad Arsoli, per affrontare lo sforzo imprevisto. Dopo qualche chilometro di pianura a ritroso nella conca, costeggiando i monti che ci separano da Avezzano (per cui dovremo comunque passare), nonché ragazzine acchittate in bicicletta, ci imbattiamo nella salita: il sole è tramontato da poco, ma in fondo c’è ancora una striscia di rosso soffuso che rende l’aria languida e fumosa. La sera fa capolino, e i grilli si riprendono il loro regno prestato alle automobili per le ore diurne. La stanchezza ci rallenta molto, e dopo aver avvertito il padre di Sinibaldo del ritardo decidiamo di prendercela un po’ più comoda, fermandoci a cogliere more mentre passano ciclisti e gente che fa jogging in entrambe le direzioni.
Due grassocce sportive in tuta ci dicono che il valico è presso il santuario, che intravediamo già tra i tornanti. Giunti al valico di San Silvano (960 m), la stanchezza e lo scoramento sono ripagati dal panorama della valle successiva: una luna prima nascosta dai monti, già sorta da tempo, ci guarda intensa come un occhio, prima color salmone, poi vino rosé, infine quasi rosso. La piana del Fucino e le luci pedestremente regolari di Avezzano si spalmano all’orizzonte.
La città ci appare dapprima sconfinata, poi, mentre la discesa ci ristora, si rivela essere un paesone piatto e spoglio, la cui pochezza era mascherata dalle copiose file di lampioni. Man mano che si susseguono i tornanti scoscesi aumenta la densità di passanti e automobili, e diminuisce la luce, finché tutto non si dissolve in una massa scura e umida. Passata Avezzano, e chieste indicazioni a dei tamarri palestrati molto disponibili e fin troppo loquaci, ci avviamo per gli ultimi 9 km della statale che ha permesso di evitare la superstrada: è buio completo ormai, e proseguiamo con la luna piena come unico faro acceso, a parte gli abbaglianti dei veicoli che ci sfiorano. Il fascio di luce spettrale ci permette di distinguere a malapena la strada, mentre ci addossiamo il più possibile alla striscia bianca a bordo strada. Fortunatamente giungiamo a Luco dei Marsi senza essere arrotati; qui ci attende, presso il suo negozio di foto e telefonia, il padre di Sinibaldo, per guidarci a casa sua in bici, poco fuori dal paese, dove sua moglie ci sta già preparando la cena. I due sono gentilissimi, più di quanto ci meritiamo, e ci fanno trovare una cena con alcuni prodotti del loro orto: melanzane, pomodori, e un’eccezionale pasta al tartufo. Il padre è abituato a correre e ad andare in bici, parliamo soprattutto di strade e tragitti da fare, prima che una doccia ristoratrice e un sonno profondo ci avvolgano i corpi stanchi.