Westenschouwen / Ijzendijke
La fine della Terra del Mare
La mattina si dispiega su un livello filosofico-esistenziale: tornando all’incontro con i due ciclisti del giorno prima, ci soffermiamo sulla cordialità universale con la quale abbiamo conversato.
Discorsi sui viaggiatori: la solidarietà tra chi viaggia è una tendenza ad accogliere innata dell’homo deambulans, oppure un bisogno di benevolenza? Gli incontri di apertura cosmica sono solo superficiali? Abbiamo bisogno di un posto in cui tornare e di punti di riferimento? Happiness is real only when shared? Mi alzerò mai dal cesso del campeggio?
Alito che sa di mandarini e pane&nutella.
Giornata serena e calda, vento insperatamente debole.
Ci apprestiamo così a lasciare il Cauershof, ma prima lasciamo l’olio usato ieri per ingrassare le catene delle bici nella stalla del vecchietto; non si tratta di generosità, ma di incapacità nel richiudere la bottiglietta e di non voler rischiare un bagaglio unto.
Nella campagna, delle lepri sfuggono agli attacchi di un rapace.
Ed eccoci così alla terza diga, la più lunga delle quattro – 10 km di gabbiani che ci scortano sopra pistoni enormi che controllano i flussi di acque: abbiamo la fortuna di passare sulla diga proprio nel momento in cui si aprono, e l’acqua crea onde e controonde nel turbinio degli uccelli marini.
Passiamo sotto una serie di enormi pale eoliche, mostri bianchi apparentemente silenziosi: sotto di essi, conta solo l’ombra e un minaccioso sciabordio dell’aria che fendono.
A metà dell’attraversamento, si forma un isolotto con al centro il parco delle dighe, dove larghi spazi degradanti verso il mare ospitano dei massi lunari sparsi senza una ragione apparente.
La fine della diga ci riserva un ultimo tratto ventoso, niente in confronto alla giornata di ieri. Le onde sono discrete, il muco fluisce dalle narici. In questa nuova isola, i campi verdi si estendono a perdita d’occhio. Deviamo per Breezand nella speranza di accorciare il nostro tragitto prendendo un traghetto da Rancho Grande; per arrivarci, percorriamo una bellissima strada che costeggia la baia, a destra filari di alberi, a sinistra surfisti che sfidano le onde olandesi.
Doverosa una pausa-pisciata, seminascosti dal verde di un terrapieno di rovi.
Arriviamo al molo per trovare soltanto quiete e desolazione: il traghetto non è attivo in bassa stagione, e l’alta stagione comincia tra tre giorni. I nostri propositi svaniscono in una coltre di sfiga, condita da compassionevole signora + vivace cane rompicoglioni al seguito.
Proseguiamo per Schotsman, piccolo borgo residenziale che rivela i profondi legami culturali e storici tra Olanda e Scozia: l’ “uomo scozzese” venne su queste coste e si stabilì in maniera permanente, e oggi si gode il vento e la canoa in garage.
Si continua costeggiando un bosco, fino a un chiosco subito prima della quarta e ultima diga: qui ci concediamo una sorta di merenda-pranzo a base di Kibbeling, delle crocchette di pesce oltremodo fritte con una salsa d’aglio decisa a far parlare di sé, il tutto servito in simpatiche vaschette di plastica a forma di pesce. Per dessert, lo chef consiglia Magnum alle mandorle, e la sana dieta del ciclista anche oggi è rispettata.
L’energia dell’aglio ci permette di passare il nuovo polder e il paese successivo, Vrouwenpolder, dove la ciclabile si inoltra di nuovo nell’entroterra agreste, e dove incontriamo un cavallo muccato.
Dopo un dedalo di stradine nei campi facciamo il nostro ingresso trionfale nella bella città di Middelburg, le cui strade sono scandite da ferrovie e canali. Una libreria piena di gabbie rumorose suggerisce di aiutare i pappagalli comprando un libro.
L’amica di Fabio purtroppo non si libera prima delle quattro e mezza, e noi non abbiamo il tempo di aspettarla lì: peccato, ritiriamo le 20.000 lire senza passare dal via.
Facciamo comunque una pausa in una graziosa piazzetta del centro, dove campeggia una statua di una fanciulla protesa col busto in avanti nell’atto di dare un bacio, il cui candido gesto viene immediatamente reinterpretato ad uso di foto sconce. La kissing girl in bronzo resta lì a sollazzo dei turisti, condannata a perenne fraintendimento.
Mentre sorveglio le bici in attesa che Fabio faccia la spesa, passa una quindicenne che pedala disinvolta e noncurante della minigonna vertiginosa, causando torcicollo di gruppo.
Imbocchiamo una ciclabile alberata in scioltezza, che ci porta fuori da Middelburg e dentro un nuovo, violento acquazzone; ormai insensibili alla pioggia, sorpassiamo in agilità un paio di skater impacciati, per essere sorpassati con altrettanta agilità da una vecchietta in sella alla sua bici da passeggio. Sic transit gloria mundi.
La pioggia se ne va ancora una volta, dopo aver colpito a freddo, e noi accompagniamo un canale fino al suo suicidio in mare a Vlissingen, dove ci si imbarca sul traghetto per superare il fiordo di Anversa. Dopo tre giorni di vento, pioggia e sole, sembra che l’Olanda sia agli sgoccioli.
Entriamo nel traghetto pedalando grazie a un tunnel di imbarco, e leghiamo le bici a delle apposite funi; per contrasto mi viene in mente la Caronte & Tourist sullo Stretto di Messina.
La visione dello stretto avvolto nell’umidità grigia del Mare del Nord, il vento teso e le navi da carico, tutto questo sembra mettersi d’accordo per concederci una ventina di minuti di pausa.
Sullo sfondo, raffinerie fumano disperate.
Passa il cargo-bananiera con l’enorme logo rosso “Chiquita”.
Con un filo di rimpianto per la brevità della piacevole tratta arriviamo a Breskens, città non bellissima, ma già in odor di Fiandre. Il lembo di mare appena attraversato segna uno stacco netto con l’acquosa Zelanda: il vento è più debole, le case meno affascinanti, l’impiego della terra più “tradizionale”.
Prendiamo quindi una ciclabile che parte dalla statua di un enorme pinguino arancione (più in là troneggiano fiere alcune teste di pesce blu delle stesse dimensioni); dopo aver passato palazzi intensivi orrendi con la pretesa di ricordare tardivamente (verso il decimo piano) gli edifici tradizionali olandesi coi tetti spioventi, e dopo aver molestato fotograficamente pecore obese, ci ritroviamo su una pista che si inoltra per campi.
Inghiottisco un moscerino – “so’ tutte proteine”, mi rassicura Fabio.
Dopo una quindicina di chilometri e un’oretta di svolte nei campi, finiamo di nuovo nella piazza di prima, a pochi metri dallo sbarco del traghetto. La Maledizione del Pinguino Arancione comincia a fare effetto. Subisco un processo di antonellizzazione, con gli occhiali da sole che finalmente ha un senso inforcare e che mi rendono Venditti.
Torniamo indietro, stavolta per la strada giusta, pronti a tuffarci ancora in nuove campagne e distese verdi a perdita d’occhio, corroborati dall’odore persistente di letame.
A metà di un campo giriamo in una parallela sterrata. Il vecchio pollo che avevamo appena salutato ci urla qualcosa, come a dirci “Ehi, dove andate, quella è casa mia!”
Spiegato l’equivoco e l’errore di strada, si mostra più gentile, e con la sua voce stridula e acuta il vecchio pollo ci indica il campeggio che cerchiamo, che a quanto asserisce con sicurezza si trova in località Schoondijke, il cui significato in olandese è “bella diga”, ma che viene immediatamente ribattezzato Belcazzo.
Schoondijke è un paese brutto e fantasma. Entriamo in un locale il Café Bon Ami, per chiedere nuovamente informazioni: vecchio pub di frequentazione pomeridiana, tutto di legno, aria irrespirabile per il fumo condensato nell’ambiente chiuso; soltanto due tavoli sono occupati, e in uno di essi dei vecchi buoi giocano a carte e bevono vino bianco; nell’altro, altri uomini di età piuttosto avanzata fanno compagnia a una donna bionda più giovane, l’unica nel nutrito ricettacolo di buzzurri.
A dispetto di quanto indicatoci dal fiero pollame poco prima, ci dicono che il campeggio che cerchiamo non esiste più da anni, nonostante sia rimasto ancora indicato su Google. Anche al bar “Snoopy”, i ragazzi nascosti dietro i loro quintali di wurstel e salsicce e salse di ogni tipo non ci sanno dire di più, mentre l’Hotel de Schwann rimane trincerato dietro il suo muro di silenzio e di inspiegata chiusura.
Altra traccia di umanità non c’è, solo tanta civiltà. In più il sole comincia a calare, siamo in mezzo al nulla, la situazione comincia a farsi problematica; chiediamo una camera al Fietscafè, il ritrovo dei ciclisti come recita anche il nome, lì forse avranno pietà di noi: ci troviamo un simpatico signore anziano che ci ferma per chiederci informazioni sul nostro viaggio in bici e per raccontarci a sua volta che si trova lì perché sua suocera è morta l’altro giorno.
“Oh, condoglianze, mi spiace”, fa Fabio in olandese,
“Non fa niente, aveva 92 anni, era pure ora!”, risponde lui ridendo.
Sì, ma il nostro tetto per la notte? Ce lo dà tua suocera?
Anche qui le camere sono tutte piene; l’antipatico proprietario, dopo averci negato anche il permesse di piantare la tenda nella stalla, ci dice scherzando: “Dai, magari un giorno farò anche un campeggio qui, così potrete tornare da me”. Contaci.
Belcazzo diventa automaticamente Belcazzinculo. Si pensa addirittura di tornare a chiedere ospitalità al vecchio pollo stridente, ma è ormai lontano, forse già a cena, forse perso nei suoi campi, forse chioccia coi suoi simili. Ci lanciamo così in volata per i 6 km che ci separano dal paese più vicino, Ijzendijke, 5 dei quali vengono fatti sotto uno scroscio di pioggia violentissimo: nonostante questo, la strada viene eroicamente macinata a gran velocità, ed entriamo in Ijzendijke grondanti.
Nella piazzetta principale, ci sentiamo dire che non ci sono campeggi nelle vicinanze, e che due alberghi su tre sono pieni. Il terzo, non sanno.
The hostel
Come un segno divino, il posto lo troviamo proprio lì, che guarda caso si chiama Le Petit Paris, una vecchia locanda con qualche camera al primo piano e il bancone alcolico delle anime perse al piano terra. L’ampio e accogliente salone è frequentato da pochi avventori, ma è la proprietaria, una grassoccia occhialuta sui trentacinque, a rivolgerci immediatamente la parola e il saluto; alla nostra domanda se ci siano camere libere, risponde che bisogna aspettare che vengano pulite, quasi in tono dissuasivo.
Molto più ospitali, decisamente troppo, le due tardone al bancone, evidentemente lacerate dalla necessità annosa di presenza maschile. Al nostro ingresso, le baldracche cinquantenni diventano tutte sorrisoni, al punto da destare in noi seria preoccupazione. Fabio risolve la situazione in maniera elegante, pronunciando a debito volume la frase “Chiedo al mio ragazzo a che ora vogliamo la colazione e le faccio sapere”.
E così, fingendoci una vivace coppia di ciclisti gay, evitiamo anche qui di pagare un pedaggio che mal ci avrebbe giovato.
Il resto della clientela del posto sono attempati giocatori di videopoker dal fare bovino. Alla radio spopola il remix di I will survive. Mentre scompariamo al primo piano, tardone&bovini si prodigano in una simpatica foto di gruppo davanti alla slot machine, forse con intenti simbolici.
Ceniamo nel tavolo all’aperto, sistemiamo le bici nel cortile e fuggiamo in camera.
Il piacere del lusso dopo tre giorni all’addiaccio. Un ostello con vista mulino.
Pensare che le mie infradito che per gli ultimi due giorni sono state la chiglia della mia bici, montate sul portapacchi anteriore e incastrate sotto al sacco a pelo o alla spesa, esposte a vento, intemperie e pioggia battente, ora siano in una cabina della doccia che conterrebbe persino Giuliano Ferrara, a fianco di asciugamani puliti che non dovremo stendere ad asciugare noi, e a gel doccia e shampoo dai sapori inediti che rimarranno qui per la prossima doccia di vaccone teutoniche, ecco, pensare tutto questo ha un gusto particolare.
Regolo la temperatura dell’acqua sui 38°, mi accorgo di essere bruciato in faccia, ma chissenefrega.
Oblio e coperte calde.