La France, la France!
Ci svegliamo che tutto intorno a noi è imperlato della pioggia notturna, e i nostri propositi di partire prima delle scorse mattinate, cementati dalla sveglia alle 6.45, vengono vanificati e rallentati dalla laboriosa asciugatura dell’attrezzatura al sole tiepido del Nord. Riusciamo comunque a lasciare il campeggio per le nove e mezza.
Incrociamo una gara di ciclisti, fretta atletica e numero sul manubrio. Non hanno tempo nemmeno per salutare. I movimenti nel gruppo sono compatti, le distanze minime.
Riprendiamo così il corso dell’amico Schelde, traversandolo a più riprese su ponti di travi d’acciaio. Oggi è il turno della chiatta Salvia, che sorpassiamo un paio di volte.
Assistiamo allo spettacolo usuale e per noi inedito dell’apertura delle vasche comunicanti che alzano o abbassano il livello dell’acqua per il passaggio delle imbarcazioni da un canale all’altro.
Di nuovo campagna color verde intenso, la nostra rotta segue il nastro grigio della ciclabile che divide il prato dal fiume. Non incrociamo altri paesi fino a Roubaix, e il passaggio di frontiera attraverso la campagna avviene in maniera silenziosa, forse è in prossimità di un tratto alberato con un baretto e una chiusa sul fiume attorno alla quale sguazzano gruppi di anatroccoli – dev’essere stagione di uova rotte.
Sul posto, pescatori sonnecchiano nelle loro mimetiche.
Silenzio fluviale.
Un cartello recita così:
Il était né sur la frontière,
Là-haut dans le Nord où c’qu’y a du vent.
Contrebandier tout comme son père,
Il avait la fraud’ dans le sang.
Il attendait les nuits sans lune
– Quand il fait sombre, on passe bien mieux. –
Pour s’faufiler par les grandes dunes
Où l’vent de la mer nous pique les yeux.
Ohé, la douane !
Ohé, les gabelous !
Lâchez tous les chiens
Et puis planquez-vous
Au fond de vos cabanes.
Regardez sur la dune
L’homme qui passe là-bas.
Il est pourtant seul
Mais vous n’l’aurez pas.
Il s’fout d’la douane
Au fond de vos cabanes,
Allez, planquez-vous
Et lâchez les chiens.
Ohé, les gabelous !
Ohé, la douane !
Quand il avait rien d’autre à faire,
Les nuits où qu’il faisait trop clair,
Il changeait les poteaux frontières
Et foutait le monde à l’envers
Ou bien, d’autres fois, en plein passage,
Quand il avait bu un bon coup,
Il poussait de vrais cris sauvages
Et v’là qu’je passe dépêchez-vous.
Ohé, la douane !
…
Il pouvait pas s’mettre dans la tête
Qu’la loi des hommes, c’est très sérieux.
C’était comme une sorte de poète
Et ces types-là, c’est dangereux.
Alors une nuit qu’y avait d’la lune,
Qu’y baladait pour son plaisir,
Ils l’ont étendu sur la dune
A coup d’fusil pour en finir.
Ohé, la douane !
…
Le contrebandier. Poco importa la linea sulla cartina, per me il confine rimane quello.
La Haine et les banlieues
Proseguiamo ancora per un rettilineo, e da un signore che porta a spasso al guinzaglio un cane e la sua tranquillità otteniamo la conferma di essere alle porte di Roubaix, e ci inoltriamo per una periferia di casette fitte di mattoni rossi. È il Primo Maggio, nell’aria odore di festa e desolazione. Fabio mi racconta che, a parte la celeberrima gara ciclista che la raggiunge partendo da Parigi, Roubaix ha una pessima fama, e che anche lui ha pessimi ricordi dell’ultima volta che ci è stato. Del resto, anche i protagonisti de La Haine, L’odio, venivano proprio dai sobborghi degradati di Lille.
Una radio gracchia flebile, bambini in tute di sottomarca giocano per strada, a coppie o in gruppo; la sorellina maggiore aiuta il più piccolo ad attraversare la strada. Le case sono sempre fitte, sempre di mattoni rossi, le porte sembrano spiare i passanti.
Una famiglia di nomadi brucia delle cassette di legno davanti alla loro roulotte.
Questa zona lascia scoperto un volto inedito della Francia, che nelle sue contraddizioni architettoniche e sociali dimostra un carattere forte. Su Rue de Metz, un uomo appena uscito da casa sua, una porticina verde che lascia intravedere delle scale piuttosto strette, ci dà delle indicazioni per Lille: parla un francese ondeggiante e arrotato, presumibilmente è un immigrato naturalizzato, tributo generazionale di decenni di colonialismo, e ostenta una gentilezza eccessiva che ci costringe a tagliare la conversazione per proseguire il viaggio.
Alla stazione del metrò un corpulento nero siede sul muretto, coi calzoni lenti che lasciano scoperta una buona metà delle sue voluminose natiche. Mi sorride, non so se in quanto consapevole del suo culo all’aria, o per altri più generici motivi.
Un uomo che bada alla sua valigia e al suo bambino ci spiega che non ci sono mezzi pubblici il primo maggio, così sfuma l’idea di trasportare le bici in metro fino al centro di Lille evitando i sobborghi. Troviamo però una comoda ciclabile che taglia un viale alberato, che ci porta nella Roubaix più chic, dove un gruppo di bambini-bene urlano, ciascuno avido del proprio gioco, in stridente contrasto col silenzio discreto e imbarazzato dei bambini-male dell’altra parte della città.
Condividiamo parte del percorso con una famigliola in bici, i due bambini sul seggiolino dei genitori sono entusiasti della nostra ingombrante presenza, e ci salutano a più riprese.
D’improvviso, e senza preavviso, ci troviamo a Lille: Fabio si lascia prendere dall’entusiasmo e dai ricordi di sei mesi di Erasmus, vuole fotografare ogni cosa, ogni angolo e balcone pregno di significato.
Nell’attesa che arrivi il suo amico Flo a prenderci, mi fa da cicerone per il bellissimo centro: place de la Republique, Grand Place, place de Gaulle, i suoi affascinanti edifici e palazzi che nascondono vie brulicanti di vita e di turismo moderato.
Giriamo: la bici in assetto da viaggio è un arnese di forma e peso sgraziati, impacciati, finché non si poggiano le chiappe sulla sella, e i piedi sui pedali: a quel punto diventano leggere come insetti in uno stagno e ronzano sospese a mezz’aria.
Incrociamo un gruppo di ragazze slavate, e accanto una Peugeot con quattro mariuoli maghrebini accosta improvvisamente: “Hey girl, do you wanna come with me?”, e sghignazzano.
Flo, Emanuelle e la maison de Dieu
Altri giri per vicoletti e case antiche, e ci fermiamo alla Citadelle, un tempo fossato di difesa, oggi promenade alberata e fitta di chioschi e giostre. Il sole è forte, e la gente ne approfitta.
Bambini e tavoli di legno, biciclette da passeggio e borse a tracolla, così diverse dai nostri pacchi pesanti e polverosi.
A sorpresa, su una di queste mountain bike giunge Florence, l’amico di Fabio. Aspetto vagamente mefistofelico e sorriso buono, Flo ha scelto di scortarci con la sua bici da Lille fino a casa sua a Don, un paesino 16 chilometri più a sud.
La sera e la casa di Flo & Emanuelle ci accolgono protettive, la cena a base di pasta è accompagnata da chiacchiere finalmente in francese e dalla radio che alterna with or without you degli U2 a somebody that I used to know di Gotye. Il “piccolo castello” di Flo è una casetta a due piani ristrutturata da loro, proprio di fronte alla chiesa di paese: Voici c’est la maison de Dieu, recita il cartello. Tanto per mettere le cose in chiaro.
Emanuelle si offre di rammendare in modo serio i pantaloni di Fabio.
Passeggiata lungo il fiume al tramonto, aironi e svassi nelle acque tranquille. Una città fantasma. Don, ci spiega Flo, in francese vuol dire “dono”, ed echeggia l’agiatezza del nord industriale e carbonifero, prima che la tecnologia leggera lo tagliasse fuori dal futuro.
La sua quiete irreversibile ci regala un sonno di una profondità ormai dimenticata nei lembi umidi della tenda, e stacchiamo completamente la spina fino al mattino successivo.
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