A Vallepietra e alle cascate di Trevi
Un giro gravel bellissimo da togliere il fiato, una traversata dura e appagante nel cuore dei Monti Simbruini, che dividono l’Abruzzo dal Lazio, la Marsica dalla Ciociaria. Il periodo per godersi il santuario di Vallepietra e le faggete sopra Camporotondo sono senza dubbio il culmine dell’autunno, quando un manto rosso ricopre ogni cosa portando ogni cosa a un’immobilità senza tempo.
Partiamo dalla stazione ferroviaria di Tagliacozzo (occhio ai treni e ai percorsi, al momento alternano partenze uno da Termini e l’altro da Tiburtina/Prenestina), primo avamposto di Appennino già in odore di Parco Nazionale. Da qui iniziamo a salire lentamente verso il cotium (picco roccioso) tagliato, la spaccatura nei monti che sovrastano il borgo nel quale è cresciuto questo antichissimo insediamento. Imbocchiamo la via Tiburtina Valeria in direzione Roma, ma subito all’uscita del paese la lasciamo per svoltare su stretti tornanti in salita in direzione Piccola Svizzera. Prendiamo velocemente quota mentre il complesso del Velino ci appare solenne sulla sinistra, fino al suggestivo campanile dell’antica Tagliacozzo.
Passata la spaccatura, si continua a salire seguendo il corso del Liri su un rettilineo asfaltato tra i pascoli e i maneggi: al bivio all’altezza di Petrella Liri, dove svoltiamo a sinistra in direzione Cappadocia, abbiamo già guadagnato circa 400 metri di dislivello, partendo dai circa 740 della stazione ai 1140 del paese. Fino a qui abbiamo ricalcato il giro per bici da strada descritto qui, che prosegue verso sud con un andamento veloce e discendente.
Noi invece qui saliamo, saliamo e tra una manciata di chilometri abbandoneremo anche l’asfalto per immergerci nel Bosco, qui non c’è spazio per la velocità o la fretta. Abbiamo ancora due centri abitati prima di incontrarlo: uno vero e proprio, il piccolo borgo di Cappadocia, e l’altro non privo di una dimensione spettrale, Camporotondo. Come la frazione di Piccola Svizzera, che abbiamo passato prima, Camporotondo è uno di quei centri nati a tavolino per soddisfare quel turismo invernale romano assetato di una montagna casalinga in quell’atmosfera di illusorio benessere che permeava gli Anni Ottanta, che passò col suo cemento di speculazioni anche tra i boschi della Marsica.
Il risultato dell’esplosione di quella bolla da Vacanze di Natale è visibile ancora oggi: scheletri di residence da sciatori della domenica, insegne di trattorie arrugginite e seconde case abitate forse una settimana l’anno. Camporotondo mostra ancora degli impianti di risalita e dei maneggi, più una manciata di baite disposte senza una vera e propria urbanistica. Tutto attorno, la faggeta.
Abbiamo passato i 1400 metri, e la vegetazione è quella ruvida e imperiosa dell’Appennino nostrano. A Camporotondo termina anche l’asfalto, e inizia la meraviglia. La strada che conduce al Santuario di Vallepietra, infatti, alterna un fondo sassoso a dei tratti di strada bianca facilmente percorribili con una bici gravel e i copertoni di un certo spessore, senza particolari difficoltà tecniche – la carreggiata è adatta anche alle automobili. Saliamo ancora, sempre gradualmente: la faggeta ci avvolge e ci ubriaca coi suoi colori. I sette chilometri che seguono sono una sinfonia di muschio, tornanti larghi a saliscendi e un tappeto di foglie rosse che lascia attoniti, e ogni curva pare cancellare la sorpresa della precedente.
Sparso nel foliage, buttato all’angolo della strada, compare un cippo di marmo bianco. La data 1847 e le chiavi pontificie incise a scalpello testimoniano il ritorno nello Stato Papale, e l’uscita dal Regno Borbonico. Poco più in là, un piazzale asfaltato con tre o quattro chioschi ci riportano alla realtà: è il momento giusto per un panino o per prendere qualche prodotto tipico – mettere la genziana nel caffè è comunque una pessima idea.
Dopo questo baluardo antropizzato, si apre un’enorme cavea naturale: è la vallata che scende verso la Ciociaria, col santuario di Vallepietra addossato a un costone di roccia e i suoi chilometri di discesa imponente che ci attendono. Le curve sono frenetiche, panoramiche, serpentiformi: è il posto buono per far stridere i freni a disco.
20 km di goduria ci costano 900 metri di dislivello: abbiamo inseguito il corso del torrente Simbrivio fino al suo tuffo disperato nell’Aniene, e ora siamo nel rigoglioso fondo valle immersi nell’umidità. Incrociamo il tracciato del Cammino di San Benedetto a piedi (quello vero, non la sua falsariga su asfalto che abbiamo fatto noi in bici) e un luogo che merita una piccola sosta e qualche centinaio di metri di camminata: le meravigliose Cascate di Trevi, un piccolo locus amoenus nascosto nella selva.
Se per oggi abbiamo fatto il pieno di bellezza e possiamo ritenerci soddisfatti, è pur vero che la soddisfazione della strada per portarci alla stazione ferroviaria di ritorno non è ancora appagata: il che tradotto vuol dire che ci tocca ancora pedalare, e pure in salita. Dopo le cascate, infatti, ci ritroviamo in un cul de sac altimetrico che ci impone una nuova scalata – questa piuttosto fastidiosa, specie dal punto di vista psicologico – di circa 350 metri di dislivello fino ad Altipiani di Arcinazzo, graziosa meta montana che ospita i resti della villa di Traiano.
Scavallati gli altipiani, possiamo dire che le fatiche sono finite: i rimanenti 25 chilometri sono un’inesorabile discesa che affonda giù nella piana del frusinate, giù per i Monti Prenestini, passando per Piglio, incrociando il percorso della vecchia ferrovia ciclabile Paliano/Fiuggi e tuffandosi per la via Anticolana fino alla stazione di Anagni scalo.