Da Benevento a Salerno, per i parchi di Partenio, Taburno e Camposauro
La narratzione giorno#1 | Benevento/Acqua delle vene
Inverni scoloriti dal global warming incorniciano l’inizio dell’anno più amato dalle tombole, quello del BucioDeCulo. E nonostante le nebbie mattutine e l’umidore frizzante della mattina che il nostro treno continua a fendere, neanche le quote del Taburno riescono a donare del freddo che ogni gennaio che si rispetti richiede.
Sonnolenza, bici appese a essiccare come quarti di bue, panni stesi ai balconi, lamiere ritorte e sfasciacarrozze sfilano dal finestrino prima che la nebbia se li inghiotta: la Campania ha un modo di annunciarsi tra l’antropologico e l’architettonico.
Benevento, treno in ritardo, 40 minuti di luce se ne vanno assieme alle 3 ore già passate seduti. La prima tappa è già un inseguimento col buio perso in anticipo.
Per questo motivo ci mettiamo l’anima in pace e cerchiamo di far fare lo stesso a Costantino, il gestore del rifugio che ci aspetta stasera al termine di un’orrida salita. Arriviamo verso le 6, siamo 3 invece di 4, se possibile vorremmo cenare lì, alcuni non mangiano carne. Iniziamo a intuire lo scorno dall’altro capo del telefono, ma tant’è.
L’uscita da Benevento è trafficata e nervosa, ma alla prima rotonda un enorme padre pio cosmico compare dalla foschia e ci benedice la pedalata coi suoi superpoteri: è tutto a posto, ora ne siamo sicuri.
Primi dislivelli a fianco del fiume Calore, il paesaggio regala brutture antropiche miste a scorci di campagna a vigneto, mostruosi viadotti di cemento e affascinanti ponticelli diroccati, forse dal terremoto.
Sul posto ancora degli attrezzi da lavoro di almeno quarant’anni fa, lame arrugginite, cacciaviti ancora appoggiati su un piano di lavoro, altri utensili sparsi qua e là. Mura sgonfia una ruota di un carrello per vedere se la valvola funziona ancora, cercando con pervicacia un incidente sul lavoro postumo mai avvenuto all’epoca.
La strada prosegue con saliscendi, il panorama migliora, fino a una curva poco prima di Foglianise, dove il monte San Michele compare all’improvviso occupando buona parte dell’orizzonte: la sua mole aguzza sovrasta il paesello, che prende l’aspetto grottesco di un borgo dolomitico preda dell’abusivismo campano. Siamo alle porte del primo parco regionale, quello di Camposauro, e il massiccio del Taburno ci fa capire che la salita è ansiosa di chiedere il conto.
Scegliere un percorso di due giorni per un nome che ricorda i dinosauri e per un paio di macchie verde sulla cartina, del resto, deve pur avere delle controparti.
Attraversiamo borghi semidiroccati, greggi di pecore e capre, stradine tortuose e mangiate dall’erosione dei torrenti. Cacciano, Cautano, Tocco Caudio. I toponimi dei monti attorno sono buffi, e tradiscono l’esistenza di invisibili linee di demarcazione toponomastica in cui le cime passano da Tocco a Toppo, quindi Tuppo. Ecco, la linea che distingue i toppi dai tuppi è diagonale e corre tra Taburno e Partenio.
Ma siamo ancora a Tocco Vecchio, dove i polli passeggiano sul selciato e costituiscono l’unico traffico della tentacolare metropoli, la cui cittadella ci sorprende arroccata in un cumulo di macerie.
I dislivelli si fanno improbi, con strappi che tagliano le colline di netto a pendenze oltre il 20%. I cani si fanno improbabili, deformi e buffi, frutto di genetiche mescolate da incroci plurimi, e sono accomunati dalla voce grossa e dalla taglia piccola, zampe corte e pance grosse. Ti si buttano sotto le ruote al tuo passaggio, innocui e fragorosi. Prima salita andata, prima vorticosa discesa verso Cirignano. A Montesarchio c’è addirittura della vita umana, dei negozi aperti, le cui insegne vantano grafiche colorate e kitsch con colori sgargianti.
Il primo postulato del marketing della provincia è la regola del Non solo [nome prodotto venduto] puntini di sospensione ammiccanti, seguito a ruota dal secondo, quello del nome di battesimo: Pina abbigliamento da sposa, da Gigi frutta e verdura, Monica intimo.
Un rettilineo pianeggiante separa i due pandori altimetrici della giornata: il secondo, quello del partenio, condensa in sé tutta l’ arcignitas della traversata. 12km di implacabile salita nel bosco. Nel frattempo, la corta giornata invernale volge al termine, il crepuscolo si prepara, la sacra ora dei Cani Che Ce Se Magnano stende minacciosa le sue ombre feroci. A San Martino Valle Caudina, ultimo centro abitato prima del nulla fatto di bosco, streghe e lunepiene, prendiamo due bottiglie di vino, oculato equipaggiamento di chi ha una borraccia a testa, non ha pranzato e si prepara ad affrontare una lunga salita nel buio.
E poi, le tenebre ci avvolgono gli sforzi rampichini, i rami degli aceri screziano la forma tondeggiante della luna come in ogni sabba che si rispetti, e il conto della salita si placa in una pace piena di energie e di penitenza.
La strada sale a tornanti stretti e ripidi, la parte visibile del bosco è tremula e scandita dalle luci che ondeggiano nel tentativo di domare la pendenza.
Un tratto di strada è chiuso da un guardrail a causa di una frana che ha mangiato buona parte dell’asfalto, ma che permette il transito delle bici: alberi incurvati formano dei piccoli tunnel vegetali, allungando le ombre nei nostri piccoli fasci di luce.
Qualche chilometro più in là, incontriamo una jeep dei carabinieri, che ovviamente si ferma per farci delle domande:
👨🏻✈️ Buonasera, tutto bene?
🐦 buonasera! Sì sì tutto a posto, siamo in tre, gli altri due sono qui dietro la curva
👨🏻✈️ Ma dove state andando? Da dove venite?
🐦 (Un fiorino?) Non vi preoccupate, dormiamo al rifugio acqua delle vene, siamo partiti da Benevento, ma siamo abituati a fare cose del genere
👮🏻♂️ Ah quindi state da Costantino! Vi mancano 3 km, ma l’ultimo è di discesa. Complimenti comunque. Lei è il signor…?
🐦 Mancini Claudio, vuole il documento?
👮🏻♂️ No no si figuri. Allora forza eh! In bocca al lupo e buona serata (…)
Dopo questo surreale teatrino tra la sceriffata e la paternale nell’oscurità della faggeta, riprendiamo gli ultimi, laceranti tornanti, che sembrano concedere tregue momentanee per poi inclinarsi con sadismo. Sono quasi le sette, e il sole è tramontato da circa due ore quando arriviamo al rifugio.
Un uomo butta legna nel fuoco all’ingresso del capanno di legno: è Costantino, simpatico signore che gestisce il posto e cominciava a preoccuparsi per le nostre sorti. È un tipo cortese ma alla buona, di cuore, discreto.
Dopo una monumentale fettuccina con funghi del posto e abbondanti bevute ci perdiamo in disquisizioni acculturate davanti al caminetto. Costantino rincara la cosa con un amaro alle erbe artigianale, che ovviamente cerchiamo con assiduità dopo il suo commiato e che altrettanto ovviamente si deve essere portato via proprio per impedire che ce lo scolassimo in sua assenza.
Sfruttando l’unico, flebile campo telefonico del rifugio Mura gli scrive chiedendo dove fosse l’amaro, e il sagace Costantino glissa la domanda, lasciandoci con una spunta blu priva di risposte.
Giunge infine il sonno ristoratore, e le mie roncopatiche sonorità notturne a molestare il riposo di Fiorella.
La narratzione giorno #2 | _Acqua delle vene/Salerno
Il risveglio è leggero, naturale, condito dai soavi vaffanculo di Fiorella in seguito alle russate notturne. Il tempo di un caffè e di rifare i bagagli, e si prosegue verso il Monte Vergine e l’omonimo santuario.
La strada di ieri con la luce assume tutto un altro aspetto: il rosso del manto di foglie dei faggi incornicia uno scenario sospeso e silente. Il fondo asfaltato per un recente passaggio del Giro e le pendenze più miti rendono il falsopiano molto piacevole e godibile, la flora dei 1400 metri di quota si dischiude in una mattina tiepida e limpidissima.
Scavallata l’ultima pendenza, si apre all’improvviso la frastagliata terra irpina, ancora affogata in un lago di nuvole. Una breve visita al santuario della Vergine, costellato di statue di san Guglielmo allupato (ovvero con lupo al seguito), e ci attendono 50km di Inesorabile discesa verso il mare: i primi 18 sono i tornanti intestinali del muro di Ospedaletto d’Alpinolo, un capolavoro di ingegneria che ci fa perdere 1000 metri di quota in maniera piacevole e mai nervosa.
Avellino: una città strana, difficile da intuire, fatta di edifici buttati qua e là a casaccio e luposità calcistiche, viadotti su fiumi prosciugati e conche dalle prospettive escheriane.
Proseguiamo.
Corsi d’acqua e ferrovie accompagnano la nostra catabasi verso Salerno in maniera rilassata e scorrevole, e così scivola via anche Mercato San Severino con le sue cupole e i suoi murales.
Le discese continuano a cullarci, ora intense ora appena accennate, fino agli stradoni lungo il fiume Irmo e alle brezze marine della meta.
Arriviamo a Salerno all’ora di pranzo, in totale scioltezza, e decidiamo di fare i Mura con Mura prendendo tutti il treno precedente. Restano i calzoni fritti in riva al mare a ungere l’attesa dell’affollato intercity di ritorno.
L’arcigno è un ricordo lontano, e neanche la luna è la stessa di ieri, ma è cresciuta un po’.