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Il cammino delle Terre Mutate – versione cicloturistica

Chilometraggio
151 Km
Dislivello in ascesa
3110 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Cialtroni
Le mie bici

Pedalare al buio dà sempre una sensazione di libertà infinita, di protezione, di familiarità. Hai un fascio di luce che ti rischiara quanto basta, un’oscurità cangiante e piena di rumori ai lati, e tutta una serie di profumi, immagini, pensieri tutto attorno, della quale occuparsi ma fino a un certo punto. E soprattutto, tanto ossigeno.
Ma andiamo con ordine, ché arrivarci, a pedalare col buio, richiede costanza, pazienza e mancanza di buon senso sufficienti ad ardere un camino pieno di buone intenzioni.
Inizia tutto dal bisogno di pedalare, e di quell’ossigeno di cui sopra. Per questo prendiamo un treno, Spoleto è vicina, Norcia pure, a patto di sollevare le bici su un pezzo di lamiera attaccato al retro di un bus e lasciarle pendere inermi per 50km, esposte a qualsiasi capriccio curvilineo del corpulento conducente.
E così, dopo esserci svegliati alle 7, alle 11 ci ritroviamo alla città di Brancaleone, con un pezzo di pizza in mano, e coi piedi ancora lontani dai pedali.
Ma tranquilli, che la salita chiede il conto, e se non l’ha ancora fatto è solo perché se ne è scordata – oppure non gliene abbiamo ancora dato modo.
Feroci cani bambini ci abbaiano, simulando poi codarda indifferenza, mentre arranchiamo indegni su fondo sassoso. Restare in equilibrio sui pedali al ritmo consentito dai rapporti e dal grip offerto dalle ruote è la difficoltà maggiore, a monte del monte. A valle, c’è il fiato, lasciato a valle con le norcine macerie.
Terra raspata dai cinghiali, ombre di quadrupedi si defilano all’orizzonte.
Incredibilmente, tutto fila liscio fino alle prime ipotermie digitali, offerte dalla quota e dal vento sferzante. La salita per la piana di castelluccio di Norcia sfilaccia il terzetto, che ama perdersi in chiacchiere e colori per scordarsi delle pendenze.
Poi, la meraviglia improvvisa del Vettore.
Un grosso panettone impacciato e minaccioso, colmo di nevi e spazi scuri incazzati per essere rimasti scoperti dalle suddette nevi. Il tramonto pare vicino, del resto la montagna ama riscuotere all’improvviso, è il suo modo di chiedere il conto.
Fiorella necessita di sali, tutti noi di calorie e calore.
Per fortuna Castelluccio ci accoglie in ritardo persino sugli orari mediterranei del desinare, e tuttavia non ci fa mancare nulla: lenticchie, farro, bruschette, cinghiali per il 33.3% che ne mangia. Vino e genziana di quella che ti viene offerta, e le calorie tornano tanto nelle falangi che nei fegati ingordi.
Una corona di alture illuminate a neve cinge il nostro sollazzo postprandiale, nel mezzopomeriggio invernale: è tempo di uscire dall’altopiano e dalle nubi scure che si addensano, prima che… No, tanto il buio lo sapevamo che l’avremmo incontrato in ogni caso, inutile fingere fosse inaspettato.
Il buio che cala sul cicloturista pigro è una costante ineluttabile, e accettabile solo nel momento in cui si palesa. Ma come, scappi tutto il giorno da qualcosa che poi ti avvolge come una coltre gradita? Così è, siamo fatti pure di contraddizioni, pure per questo pedaliamo.
Prepariamo le luci mentre la nebbia avvolge il secondo ostacolo altimetrico da superare, Forca Canepina: maestose e panoramiche vastità accompagnano una pedalata senza pretese, ricca di respiri profondi e povera di luci naturali – quelle artificiali invece già colorano il blu nebbioso.
Il freddo è più blando che prima, il buio perdona ogni cosa.
Perdona le pietose rovine di case e vite lasciate a metà, i mattoni divisi dalla gravità nel giallo irreale dei pochi lampioni. Perdona persino l’ignavia connivente dello stato e delle sue casette legnose, mentre passiamo quei nomi da cartelli di zona rossa buoni solo per i telegiornali facili da dimenticare, Arquata del Tronto, Pretare, Accumoli. Nomi da riportare accanto alle più celebri Amatrice e Norcia, e all’empatia mediatica spendibile in vari pesi e misure.
Intanto, le insegne di bar e alberghi rimangono quelle spoglie, prive di fronzoli di quelle che si usavano qualche decade fa, a riprova che anche lì tra quei cumuli di cemento, granito e frigo algida rovesciati un tempo si viveva e rideva, nonostante il freddo.
E ora, soltanto il freddo accompagna le nostre dita premute sui freni nella sera tranquilla e indifferente.
I cartelli SS4 non tradiscono, la nomenclatura consolare ci ha riportato sulla Salaria. Si tratta soltanto
a) di superare i tempi semaforici dei sensi unici alternati per lavori in corso, e relativi autotreni,
b) di resistere al buio imperante, squarciato soltanto dai nostri faretti a pile,
c) di tollerare 4km di salita inattesa da Accumoli all’unico posto disponibile a ospitare delle anime perse nelle invernali serate pandemiche, il tutto condensato nella gioviale persona di Davide.
Davide, 70 anni suonati e un fare da anfitrione scosso soltanto dai ricordi del terremoto e dalle richieste di menu vegani;
Davide, le cui chiacchiere spaziano dai borboni alle economie locali, passando per il vino e l’olio di Campobasso, mentre le verdure sono fatte in casa;
Davide, che si scusa di cose inutili e prende per il culo su cose inesistenti (sì, ho rosicato su quella cosa dell’unità d’Italia) , affabula e brinda, trattiene animi stanchi tenendoli appesi al fuoco di un camino, li fiacca con l’ultimo cicchetto di liquore, e lo prende come pretesto per nuovi discorsi ;
Davide, che mischia ostentazione di saggezza e professione di ignoranza, muta tono di voce nel raccontare di come abbia rimosso ricordi basati su scala Richter e imparato parole nuove per definire quel vuoto che l’ha scosso fino alle fondamenta, lui che era abituato a convivere coi terremoti: sindrome da stress posttraumatico, mica lo sapevo si chiamasse così. E intanto il fuoco continua a crepitare. Buio.

Notte di cene abbondanti, notte di camino acceso all’interno e umidità gelida all’esterno sotto la mole dei sibillini panettoni innevati.
I primi km scorrono nel vano tentativo di rendere più piacevole la traccia, restando in quota su una carrareccia. E dunque, salita sin dall’inizio, invece di discesa e nuova salita. Soffrire prima per soffrire di meno: niente come la fatica per evitare fatica produce fatica gratuita, o cetrioli imprevisti.
Ma tant’è.
Contorni di torrenti sferzati dal freddo, inverno vestito d’autunno, saliamo lenti assaporando i profumi del bosco e il ghiaccio rimasto sull’asfalto, che di tanto in tanto fa slittare la trazione del copertone posteriore. Primi kituemmuort rompono l’aria frizzante.
Sterrato: ah, annamo bene, c’è appena passato un trattore, che indecenza signora mia, pedaleremo lenti! Quello è solo l’inizio, e magari fosse tutto così.
Dinanzi a noi si apre il Vietnam amatriciano, un’unica colata di fango, rovi e pezzi di ghiaccio come cocci di bottiglia ci si para innanzi. 4km di camminata? No, di guado.
Dapprima facciamo i sostenuti, cerchiamo le traiettorie migliori, ci passiamo le bici, cerchiamo conforto nelle tracce di un ungulato adulto, presumibilmente bovino.
Dove passano gli animali si sprofonda di meno, ci diciamo.
Man mano che il tempo passa, nuove inaccessibili pozzanghere rosicchiano cm alle caviglie avvolgendole nelle sabbie mobili, e rendendoci sempre più consci del fatto che il presumibile bovino di cui sopra sta andando probabilmente a morire da solo nel bosco, e noi seguendolo non facciamo altro che disturbarlo nell’estremo proposito.
L’attenzione a non bagnare i piedi si tramuta in un sonoro sticazzi, il nero di scarpe e ruote cede il passo a un inesorabile marrone da trincea, movimenti da mimo tradiscono l’indecisione sulla prossima mossa su come affondare meglio.
Passiamo così accanto ad Amatrice per le sue frazioni, sommersi dal silenzio assordante delle macerie. Presso un fontanile troneggia solenne il cartello “no selfie – luogo di rispetto”, a lasciarti lì a pensare che per metterlo qualcuno dovrà pur averlo fatto.
Pareti tranciate a metà scoprono la nuda quotidianità dei posti, frettolosamente ricoperta di calcinacci. Addobbi natalizi ricadono goffi sulla nuova, precaria quotidianità fatta di container. Un cane abbaia.
Dopo Voceto spunta il sole, svelando il bianco luminoso del Gorzano, e ricordandoci quanto siamo piccoli nel panorama prima ridotto dalle nuvole. Un paio di saliscendi, una pausa panino e birretta, e inizia la salita verso Campotosto.
Regolare, costante, un cinquepercento di abeti e solitudine sferzato da un freddo tagliente.
Mi rendo conto che l’acqua fangosa di prima mi si sta ghiacciando nelle scarpe, e inizio ad accelerare per rendere più sopportabili le lame che mi trapassano i piedi, iniziando una penitente e sostenuta scalata solitaria. Di suo l’ascesa non sarebbe malvagia, ma i due parallelepidi inerti che pigiano sui pedali, certo presaghi di rigor mortis, la rendono tediosa:
L’ipotermia ama spostarsi a seconda del paesaggio, e quando spiana le folate di vento gelido la trasferiscono sulle mani, distraendo un po’ gli alluci ormai sopiti.
Mi si para innanzi la mole immensa della diga, uno strappetto e sono sulle sponde del lago: Campotosto, la Twin Peaks della Laga.
Acque ferme e gelide, neve fresca sulla carreggiata, cavalli desolati dietro il guard rail. Un che di inquietante e mortifero, eppure affascinante. Cerco un posto caldo per cambiarmi e asciugarmi, ma un nulla fatto di nevischio, pilastri di cemento e cagnoni da pastore si propaga per chilometri e chilometri.
La discesa per Arischia completa la necrosi delle estremità nonostante i guanti. Una nuova nevicata fatta di polvere bianca si mescola a colate di muco a bordo strada.
Gli ultimi km sono di statale Amiternina, uno stretto rettilineo dove le auto ti fanno il pelo, mentre un anfiteatro romano si gode l’imbrunire.
In attesa degli altri e del treno per Terni entro a scaldarmi in un bar. Nell’ordine
a) la cassiera A mi deride scambiandomi per un giocatore di padel,
b) la cassiera B esterna l’opinione che io sia un muratore
c) chiarito che il fango che mi porto addosso e semino ovunque sul pavimento, la cassiera A mi offre un cornetto, mossa a compassione. Provo a pagarli comunque, lei insiste dicendo che offre la casa.
Sipario sull’interminabile viaggio di ritorno in treno, fatto di motrici a gasolio, stazioni inadatte a scaldarci le ossa e coincidenze in stucchevole ritardo.

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