La Grande Traversata Sibillina e le Lame Rosse
Un itinerario denso di bellezza, duro e cattivo nelle salite, dalla varietà paesaggistica – soprattutto geologica! – sorprendente. Ci spostiamo nell’arco di due giorni tra Umbria e Marche, in cerca di alture appenniniche e formazioni rocciose davvero inattese.
In 120 km e quasi 3000 metri di dislivello ci attende infatti un riassunto condensato degli ultimi milioni di anni di evoluzione della crosta terrestre appenninica: un territorio tristemente movimentato e tremendamente affascinante, quello dei Sibillini. La catena montuosa che divide il versante tirrenico da quello adriatico, e che vanta la seconda cima più alta del Centro dopo il Gran Sasso, ovvero i 2476 metri del Monte Vettore, sono un tripudio di selle, valichi e altipiani che amano vestirsi di colori sempre nuovi, mescolando ventose desolazioni al rigoglio di conifere ombrose. Ma andiamo con ordine.
La nostra partenza è dall’incantato e ferito borgo di Norcia, che è facilmente raggiungibile da Roma con il treno regionale fino a Spoleto più il servizio navetta di BusItalia, che offre 6 posti bici a mezzo su una rastrelliera nella parte posteriore del mezzo (attenzione! Il montaggio non è semplicissimo!). La città di Brancaleone, già toccata durante il Cammino di San Benedetto e nel percorso della Vecchia Ferrovia, mostra ormai da anni le sue ferite come medaglie al valore, ostentando un centro ormai semivuoto e impalcature di legno a organizzare la Resistenza al Tempo e all’Uomo.
Da qui seguiamo un altro Cammino già intrapreso, quello delle TerreMutate, del quale abbiamo percorso già una versione breve e cicloturistica. Uscendo da Norcia per sterrati aspri, la strada si inerpica subito in direzione di uno degli Altipiani più celebri dell’Italia Centrale, quello di Castelluccio di Norcia. Il percorso si apre nervoso e nebbioso, ora sassoso, ora sterrato, fino a imboccare la provinciale asfaltata che sale ancora con tornanti più graduali ma costanti.
Raffiche di vento feroci preannunciano la fine di questa prima salita, e il ciglio della Piana finalmente espugnato: la distesa nota una settimana all’anno per la coloratissima fioritura delle lenticchie si spalma ossequiosa ai piedi del massiccio del Vettore, che già trasuda fiotti di neve sulle curve morbide ma minacciose. Per qualche chilometro è solo prateria e vento, vento, vento famelico di ciclisti ondeggianti, mai sazio di tormentare quel nastro solitario di asfalto che attraversa la piana quasi senza un senso. Qua e là, allevamenti e cavalli solitari.
Svoltiamo quindi a destra in direzione di Castelluccio, dove si impone una pausa pranzo a base dei legumi dell’Altopiano: la celeberrima zuppa di lenticchie e roveja, una varietà di pisello selvatico che cresce soltanto ad alta quota, è il tipico prodotto endemico, indissolubilmente legato alla realtà dei posti da cui proviene, e che conserva tra l’altro un legame forte tra le sue caratteristiche e la sua funzione in relazione al contesto. Vale a dire, niente scalda dal vento freddo dell’Altopiano di Castelluccio come una zuppa calda di lenticchie di Castelluccio. Passiamo davanti al paese antico, con l’antica porta impietosamente diroccata, pedalando mesti tra i prefabbricati destinati a ospitare in una provvisorietà indeterminata chi è rimasto a lavorare qui.
Nuovo strappo, nuova discesa, nuovo altopiano. Gli orizzonti restano vasti e desolati, il vento continua la sua sinfonia assordante. La giornata si chiude con dei vertiginosi tornanti che ci tolgono tutta la quota guadagnata nella giornata, fino a lambire il corso del Nera nei pressi di Castelsantangelo: qui il fiume scorre freddo e limpido, sovrastato dalle forme aguzze dei monti tutto attorno, a lasciarti il dubbio se siano stati loro a togliergli spazio vitale, oppure se sia stato lui a eroderli con pazienza dall’interno. Ci riposiamo seguendo il suo corso a fondo valle fino a Visso, per poi deviare qualche km per Ussita, dove abbiamo trovato un pernotto spartano nell‘Ostello Salesiano Colorito. Per arrivarci, è d’uopo un’ultimo strappo su strada sterrata, ma il panorama nei boschi ripaga anche quest’ultimo sforzo inatteso. La quiete densa di grufolii e conifere avvolge il riposo del primo giorno.
Il secondo giorno si apre in fondo alla Valle del Nera, che qui assume i tratti di un affascinante e umido budello dal quale non è possibile tirarsi fuori se non mettendo i pignoni più leggeri e armandosi di pazienza. Strade secondarie dall’asfalto consumato ai bordi tradiscono ancora una volta un passato recente fatto di dolore e crolli, di cui solo i bovini sembrano essere testimoni neanche troppo ignari. Una nuova serie di fitti tornanti ci porta a quota 950 nei pressi del Serrone, dove si aprono le vallate marchigiane: il grosso della difficoltà è andato, ma non quello dei panorami. Con larghe volute in discesa passiamo dapprima accanto alla meravigliosa Abbadia di Fiastra, poi all’omonimo lago. Le colline qui si fanno più dolci, l’atmosfera quieta e a tratti spettrale come ogni lago che si rispetti. I colori cerulei e la quasi totale assenza di esseri umani, del resto, non fanno che accrescere questa pace quasi inquietante.
Attraversiamo San Lorenzo al Lago, che sembra tuttavia preservare delle tracce antropiche nella forma di qualche gelataio, per poi imboccare un percorso sterrato ciclabile lungolago che scorre accanto alla provinciale. All’estremità est del lago ci accoglie la diga dalla quale parte il sentiero Lame Rosse: si tratta di una deviazione che vale tutto il percorso per la spettacolarità delle sue formazioni rocciose, della lunghezza di poco più di 3 km. Purtroppo il transito delle bici è vietato, a causa di incidenti che si sono verificati in alcuni passaggi stretti, ed è quindi necessario legarle per improvvisare un breve trekking non impegnativo. La meta è davvero imperdibile: una specie di canyon di falesie calcaree dai colori rosso acceso, tanto maestosi quanto fragili. Le tinte così accese da sembrare irreali derivano dalla progressiva erosione degli strati calcarei che hanno lasciato scoperta la parte ferrosa delle falesie, e infatti è severamente proibito avvicinarsi troppo alle guglie per il pericolo di crolli. Le ultime centinaia di metri sono un ripido ghiaione che si è appunto formato dall’inesorabile sgretolamento del canyon, che nel giro di non moltissimo tempo cesserà di esistere.
Gli ultimi chilometri sono dapprima maestosi e panoramici lungo la SP48 Fiastra-Monastero, una serpentina tra gallerie e vallate dalla quale è possibile ammirare ancora lo spettacolo delle Lame Rosse da lontano, poi sempre più pianeggianti e ordinari, con una docile campagna che ci porta alla stazione più vicina per tornare a Roma, quella di Tolentino, dove ferma l’intercity con carrozza bici prenotabile online.