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la scalata del Blockhaus

Partenza
Sulmona
Arrivo
Sulmona
File gpx
Chilometraggio
138 Km
Dislivello in ascesa
2860 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Regione
Fondo stradale
Le mie bici

Cialtroni cari, scusate se vi attacco tanti pipponi ma sono ancora sotto endorfine per oggi, sono tipo tra il drogato e l’estatico, penso che sia stata una delle tappe solitarie più belle della mia vita (quelle in compagnia sono di default più belle, happiness is only if shared ), e temo vi tocchi la #narratzione della giornata.

Lo stato di precarietà di queste ultime due settimane ha generato in me un prepotente desiderio di foliage, di cose belle, di natura solitaria e di groppi rimasti qua vicino alla gola.
Il Blockhaus è una salita bastarda, di quelle storiche perché chiedono il conto, una rampa continua al 10% senza ombra, che non fa sconti, lontana da tutto e dalla cosiddetta civiltà di paesi e treni, che già a giugno scorso mi aveva fregato quando sconsolato mi sono dovuto girare prima degli ultimi 7 km, altrimenti non avrei preso l’ultimo treno della giornata.
Questo nome nazista come le sue pendenze, nato da un avamposto militare tedesco che significa “casa di roccia” mi è risuonato per mesi in testa. Facendo ricerche, scopro che la “casa di roccia” col nazismo non c’entra niente, ma risale al periodo di dominazione asburgica dell’Abruzzo, che nelle sue mire unificatrici voleva combattere il brigantaggio annidato su quei monti.
Lockdown B, Blockdown, stare blockati in da haus. Questa potenzialmente era l’ultima domenica a spostamenti liberi, e sentivo di doverla fare, di simbolismi stupidi hanno quello stesso fondamentalismo che ti spinge a bruciare un porco di gomma perché ritenuto di responsabile di una pandemia e di tante altre cose.
Sento quindi gli amici di Loreto, i ragazzi dell’Enecta Bike Tour, per un’uscita in tutyna. Balla coi tuty , dice, anche se si camuffa male.
So’ bravi ragazzi, alcuni manco ragazzi dato che i pensionati abbondano, e pur con le loro full carbon tengono ritmi blandi. Non blandi come i nostri, ma comunque blandi per chi ha migliaia di euri sotto ar culo.
C “Avete proposte per domenica? Io pensavo al Blockhaus...”
T “Ma che sei matto? Sul Blockhaus fa freddo, quando scendi ti muori
C “Ma fa ancora caldo…”
T “No no, guarda, noi facciamo un giro che resta più basso, un’ottantina sulle colline tra Tocco da Casauria, Salle e Roccamorice, fidati che è bello!
C “Ok
Appuntamento alle 9.30 a Sulmona, per starci devo prendere la macchina e svegliarmi comunque alle 6, il primo treno utile arriva alle dieci e mezza passate.
Tengo il passo del gruppo senza sforzo, anzi i più allenati aspettano gli altri ai bivi a fine salite. Primo timido foliage, le colline sono inaspettatamente belle, una Toscana più ruvida e fredda, mentre il Monte Morrone sulla destra già presagisce la bellezza delle ore successive.
Ho solo tre strati pensando che rimarremo a non più di 600 metri, maglia termica, maglia e felpetta. I guanti me li sono portati per scrupolo, ma fa decisamente caldo.
Ho appresso contanti per un totale di 20 centesimi più i ramini, ho dimenticato la borraccia sull’altra bici e non ho nulla per poggiare la felpa ai primi caldi della salita. La appallottolo quindi a mo’ di Filini nel meno ingombrante dei modi alla mia portata, per creare un orrendo bubbone sulla schiena in una delle tre tasche della maglia tecnica, che quasi strappa la cucitura. Tiene? Tiene. Sticazzi, andiamo avanti.
Prime salite, vado avanti al gruppo per poi fermarmi a fare foto. Uno dei primi che mi raggiunge sale a testa bassa e quasi mi prende.
Ehi, attenzione, stavi in mezzo alla carreggiata!”
Vorrei spiegargli che è così che facciamo ogni weekend e non si fa mai male nessuno perché andiamo a dieci all’ora e soprattutto guardiamo avanti, ma mi scuso con un sorriso. Gap culturali, ci può stare, certo arrancavi pure in salita, e io stavo fermo lì da tipo due minuti, manco a dire che mi sono fermato all’improvviso, ma tant’è.  Il mondo si divide tra chi sguinzaglia i cani all’attacco e chi quando cala il sole i cani se lo magnano: inizio a ricordare da dove vengo e da che parte sto.
Passiamo il ponte sulle gole dell’Orfento poco prima di Roccamorice, dove fanno bungee jumping. C’è già il gazebo montato, ma i primi clienti devono ancora arrivare.
Poco dopo, al bivio, vedo il cartello “Monte Block Haus“. Fugace calcolo su Komoot, 23 km alla cima da dove mi trovo, già una cinquantina nelle gambe, ok ciao a tutti.
Non me ne vogliate, si sta bene con voi ma siete tuty, e alcuni di voi pure guardie (poraccio, uno ha lavorato nella PL a San Basilio, non lo invidio per niente).
E dopotutto il fatto che siate comunque esseri umani simpatici non vuol dire che siete amici stretti, e un po’ stretti ora mi andate.
Grazie a tuty, bellissima traccia, ora però vorrei godere un po’.
Mi scollo per l’insana impresa, è mezzogiorno e non ho manco fatto colazione (fanatici). Faccio quindi sosta a Roccamorice, al primo bar che incontro anziani lasciano sgattaiolare nasi fuori dalle mascherine per godersi il sole novembrino, consci dei rapporti sociali ristretti del paese e dei conseguenti controlli blandi.
Entro assetato e affamato, ma privo di contanti. Il barista è parimenti privo di POS, ma mi fa cordiale: “ti pare che ti lascio senza mangiare e senza bere, intanto beviti un po’ d’acqua da me e poi vai al forno dietro l’angolo che ha il POS”.
Due pezzi di pizza, un po’ di cioccolata, una bottiglietta d’acqua a sostituire la borraccia dimenticata e si riparte a ritmo gagliardo.
La gagliardia cede presto il passo al 10% di cui sopra: finisco ben presto i rapporti e arranco a passo lento, il sole picchia e sudo come d’estate. Mangio cioccolata, e ad acqua finita ottengo l’effetto betoniera in bocca. Provvidenziali due tizi dall’accento marcatamente pescarese (parlavano esattamente come Ricci, quindi non ho dubbi a riguardo) che mi indicano un fontanile nascosto a poche centinaia di metri dalla strada asfaltata: acqua buona e gelida da far male ai denti.
I due mi ricordano poi che a 5/6km posso fare ancora scorta a Fonte Tettone, informazione secondaria di suo che scelgo di inserire solo a doverosi fini toponomastici.
La salita cattiva continua, tre scalini segnati in rosso su Komoot inducono all’imprecazione teutonica, poi effettivamente spiana. Sotto di me compaiono i crepacci della valle dell’Orfento e il percorso dello spirito celestiniano, vestito d’un rosso bruno incantevole. La strada regala anche un po’ di ombra nel #foliage, una sorta di tunnel di gnomi di quelli che manco su instagram.
La pendenza cede un po’ e rilassa la gamba, piazzandosi su un più fattibile 7%. Arrivo che sono già le due e mezza a Mamma Rosa, il rifugio dove iniziano le funivie ai piedi della Majelletta. Le pause acqua e il ritmo più lento del previsto mi hanno fatto perdere tempo sulla tabella di marcia sperata, che mi voleva giubilante alle due e mezza in cima. Da qui partono gli ultimi 7 km: non i più duri, ma i più esposti, quelli famosi.
Il Giro qui è passato tre anni fa, e l’asfalto già vanta crepe notevoli, forse per le ghiacciate invernali. In compenso, sull’asfalto rimasto sopravvivono scritte inneggianti a Nibali e con sagome di briganti, forse a memoria dei conflitti con i crucchi della BlockHaus. 7 chilometri, c’è poco da fare gli splendidi, è un’altra ora secca.
Inizia a fare freddino, specie con le raffiche improvvise che ti avvolgono un tornante sì e uno no, e cominci a benedire l’ultima esposizione al sole della giornata. L’ultimo tratto è chiuso al traffico, e data la bella giornata affollato da molti escursionisti.
Lo spettacolo dall’alto è qualcosa di commovente, qualcosa che nessuna foto potrà mai rendere: un tappeto di nuvole basse copre tutta la piana di Sulmona da una parte, lasciando emergere Corno Grande e Velino come due isole, e tutto l’Adriatico dall’altra, nascondendo la costa dei trabocchi con una coltre bianca e compatta.
Pare un’illustrazione di Miyazaki, una di quelle città incantate o di paesaggi surreali in cui pedalare e volare si sovrappongono. L’ultimissima parte, poi, si arrampica proprio sul crinale dei monti Majelletta e Majella verso la cima Blockhaus, scoprendo orridi macchiati di rosso e i primi sprazzi di neve.
Poi, il piazzale col monumento famoso: vento impietoso e quota 2066. Foto di rito e si fugge giù, non manca molto alle quattro e la giornata d queste parti è finita.
Salendo avevo controllato i treni per rientrare a Sulmona dalle varie stazioni sulla Tiburtina, e avevo già visto che gli orari erano improbabili o scomodi.
Scegliendo di salire, ho anche scelto di sfanculare l’opzione treno, o meglio le endorfine hanno abbassato la guarda su qualsiasi misura di buonsenso relativa a freddo, distanza e buio. Insomma, consapevole ma autoabbindolato, e ora anche a quota duemila e passa con 65km alla macchina e 70 nelle gambe, praticamente al tramonto.
Sticazzi, tanto c’ho i guanti!
Contro ogni previsione, la discesa tiene bene il freddo, il vento è calato e devo solo stare attento alle velocità spaventose che le pendenze di prima frenavano.
Sono costretto a fermarmi due o tre volte per riposare i muscoli delle dita sulle leve freno, e riesco a godermi lo spettacolo di una volpe a bordo strada: è ferma, sospettosa ma non impaurita. Mi scruta da una ventina di metri mentre tento con le mani intirizzite di sganciare il cellulare e fotografarla, ma si allontana controluce prima che mi sia possibile. Rimane lo spettacolo delle nubi, ora sempre più basse nella luce dorata del tramonto, a ovattare le ultime ore di luce coi monti sempre lì sullo sfondo, nitidi e compiaciuti.
Completo rapidamente la discesa prima dell’oscurità, ma mi ritrovo a San Valentino Citeriore al crepuscolo. Altri 37 km all’arrivo, sono stanchino.
Tiburtina, e manco bella. Decido all’inizio di fermarmi alla prima stazione e aspettare anche quanto basta il treno per Sulmona. Ricontrollo gli orari, sono le 5 e il primo treno passa alle otto e mezza. A sto punto me la faccio in bici, grazie.
Il buio mi avvolge, fortunatamente le macchine sono poche. Dopo aver espugnato il Blockhaus, ora si tratta di poter raccontare il Blockhaus. E la lucetta flebile e intermittente è una garanzia un po’ debole per farlo. Nonostante il disagio che accompagna questi ultimi trenta km e la mia esistenza tutta, mi godo queste ultime ore di stanchezza in maniera inaspettata. L’oscurità è dolce, la temperatura è risalita e non devo far altro che usare quella striscia bianca per capire dove
curverà la strada. Metto in coppia la gamba con le energie rimaste, rallento un po’ il ritmo ma mi scopro ancora sui 25 all’ora.
Purtroppo, da Torre de’ Passeri a Popoli e soprattutto da Popoli a Sulmona i falsopiani e gli avvallamenti sono particolarmente bastardi, e mi finiscono.
Non credete mai al concetto di “piana di Sulmona“, è marketing probabilmente già noto ai tempi di Ovidio per non spaventare il turismo: nell’ultima parte di SS17 procedo in automatico spinto da uno stomaco troppo vuoto, fino a che compaiono i primi capannoni della zona industriale. Mai stato contento di salire in una macchina. Puzzo di puzza rara, atavica, tutyna. Chiudo a 138ktm e 2800 di dislivello, con un senso di pienezza e di bellezza che stordiscono.

Solo la bellezza di un bosco ci può salvare.

Foto