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Paura e delirio in Molise

Partenza
Isernia stazione FS
Arrivo
Venafro stazione FS
File gpx
Chilometraggio
146 Km
Dislivello in ascesa
2420 Mt
Tipologia di percorso
Paesaggio
Regione
Fondo stradale
Le mie bici

Può un cicloviaggio invernale di tre giorni diventare un gigantesco contenitore di tensioni emotive, drammi esistenziali, attentati alla propria incolumità, incursioni grottesche, pulsioni vitali e rischi mortiferi? Sì, assolutamente.

E il Molise è un detonatore di energie latenti di portata immane, carico com’è di mistero e presunto anonimato al punto da metterne in discussione l’esistenza stessa. La meta perfetta per passare qualche giorno sui monti prima di Capodanno, chissà, magari a testare l’attrezzatura da neve, in cerca di panorami inediti e tesori nascosti.

Nelle settimane precedenti si concorda l’itinerario, e attorno ad esso si forma il gruppo: pare che stavolta il Libero Collettivo dei Cialtroni in Bici goda di larga adesione, e addirittura otto temerari scelgono di misurare il freddo dell’Appennino con le dita incollate al manubrio. Tanta storia, tanto fascino attorno al Panettone Totale, il massiccio del Matese. Partiamo con l’idea di fare tappe brevi e intense, per sfruttare al massimo le ore di luce e visitare dei posti che ci sembrano davvero interessanti, al punto che uno si chiede per quale principio bellezza e fama non sempre vadano di pari passo. L’area archeologica di Saepinum (Altilia), città sannitica e poi romana; l’Abbazia di Castelpetroso e le sue guglie neogotiche; la salita di Campitello Matese, nota stazione sciistica nel bel mezzo del Parco Regionale, e ovviamente i due laghi che caratterizzano questa regione.

Insomma, si sceglie di disegnare una traccia attorno a quanto il Molise ci sa offrire, e si lascia il resto al Caso. Il resto, in questo Caso, è l’abbandono a un mezzo totalmente analogico e meccanico come la bici in un contesto in cui la natura non offre molto riparo, e in cui l’antropizzazione è saltuaria – complici anche le feste natalizie, la quota appenninica e un certo meteo che si preannuncia avverso.

”Dà neve… ma non staremo a fà na cazzata?”

Ma no, basta coprirsi. Due guanti e via. Vabbè, poi si vede.

Degli imprevisti dell’ultimo minuto ci dividono in due gruppi, e il primo giorno di pedalate vedono il gruppo di Piero, Sandro, Fiorella, Irene e Jenny impegnato tra nevischio e la parte culturale del Molise: l’abbazia di Castelpetroso, l’area archeologica di Altilia. Io, Giuseppe e Michele li raggiungiamo il giorno successivo, dopo decisioni sofferte e necessarie di varia natura. Treno all’alba per Isernia: sul gruppo whatsapp arrivano video degli altri, su sterrati pieni di pozzanghere e le prime spruzzate di neve su asfalti solitari. Un senso di isterica euforia si spalma sulle occhiaie foriere di sonni scarsi, e sulle guance addossate sui finestrini gelidi, mentre tutto attorno si disegnano linee grigiastre e sbiadite.

Iniziamo l’inseguimento per ricongiungerci al resto del gruppo, che per visitare Altilia ha effettuato una deviazione verso sud dall’anello di base: il punto designato per riprenderci è Guardiaregia, proprio alle pendici sud del massiccio del Matese. Le campagne tagliate dalla Statale 17 di gucciniana memoria ci sfilano a fianco, il freddo è pungente fin dentro i guanti. La compagnia dei cialtroni è di nuovo unita, nonostante i tiri birboni della vita.

Inizio della salita per il paese, prima graduale, poi più tenace nello scoprire le sagome delle casette color pastello, che sembrano quasi voler reclamare un alone di vitalità nel biancore che le avvolge gradualmente a partire dai tetti. Guardiagregia è il nostro avamposto di buonsenso, il limite che sancisce la soglia oltre la quale non staremo mica a fà ‘na cazzata. Sin dalla mattina qualcuno di noi guarda a turno il meteo, scruta l’orizzonte, cerca di capire se sia saggio iniziare la scalata vera e propria verso Campitello Matese: le previsioni danno neve e tempo in peggioramento. E il problema non sarebbero neanche tanto le basse temperature, quanto l’effettiva praticabilità della strada: il valico è vicino ai 1500, e gli spazzaneve potrebbero non essere passati. E se non fosse neve, potrebbe essere il ghiaccio a rendere il percorso impossibile. Insomma, se si va avanti non si sa per quanto, né se si torna indietro.

Con la testa piena di questi interrogativi, ci fermiamo nell’unico bar aperto del paese, e nell’ultimo posto aperto che vedremo per la giornata; un locale fumoso, caldo e affollato di cacciatori. La mimetica e il cappellino con la visiera è la cornice ideale a pance voluminose e parlate tonde e grasse, ibride tra il molisano e il campano. Volti allegri, connotati marcati e lineamenti pronunciati completano l’affresco della compagnia, ovviamente tutta al maschile, ovviamente tutta tra i trenta e i settant’anni. Sguardi di interesse e curiosità su di noi, mentre ordiniamo birre, pizzette e tramezzini. Oh questi so’ montanari, ti pare che non lo sanno! Ci diciamo, incoraggiati anche dai fuoristrada 4×4 parcheggiati davanti al posto, che se non hanno loro un’adeguata conoscenza del territorio e del meteo, chi ce la può avere?

Eppure dimentichiamo la Prima Regola delle Indicazioni Stradali al Cicloturista: quando chiedi in giro, a meno che tu non sia in Olanda, ricorda che chi ti dà informazioni non sa un cazzo di bicicletta. E quindi, per lui dirti che mancano 3 o 58km cambierà poco. Se vuoi chiederglielo, fa’ pure, ma sappi che lo stai facendo per avere uno spaccato antropologico del posto che attraversi, e non certo per l’informazione che ti serve. Del resto, siamo nell’epoca di smartphone e gps. Nel frattempo, delle barbe incolte e grigiastre ci ammirano per il coraggio, o l’incoscienza.

Un ragazzo dal gilet militare che intrappola un fisico cresciuto a braciole, evidentemente lo scemo del villaggio, ci dice con un candore disarmante: “No ragazzi voi siete dei pazzi… io non farei mai la strada che volete fare voi oggi, ma proprio mai! Voi però fatelo, si può fare, tranquilli!” Il barista lo squadra da dietro il bancone, e poi guarda noi, come a dirci di non fidarsi.

Disarmati e incuriositi dall’oracolo sibillino del bifolco molisano, decidiamo di avviarci comunque: è vero, è in arrivo una tempesta di neve, ma sarà in serata, e noi abbiamo programmato di arrivare prima del buio. Dopo, faccia quello che vuole! Si sale quindi col beneficio del dubbio, forti del fatto che siamo in otto, e se stiamo facendo una cazzata, almeno la facciamo tutti insieme – a riprova del fatto che più cervelli spesso si annullano anziché sommarsi. La salita è lunga, graduale, lenta quanto basta per permettere al vento di imbiancarsi assieme alla strada. Nel frattempo la mole minacciosa del Matese sembra mostrare uno spacco netto tra chiaro e scuro, tra alberi e neve, tra salvezza e disastro. Quest’immagine funesta di scissione violenta ci urla in faccia stolti, stolti siete, ve ne accorgerete!

Siamo nelle prime ore del meriggio, in teoria quelle più tiepide, e il freddo si fa sentire. Il cialtrone ha un modo tutto suo di reagire al disagio: Irene sorride compiaciuta del suo amore per il freddo, e in lei nasce un’immotivata euforia nella sventura crescente; Jenny, silenzioso felino, si ammutolisce e pedala a la testa bassa, gli occhi pronti a cogliere in un guizzo pericolo o salvezza dietro ogni curva; Michele si trincera dietro il suo passamontagna e si fa brigante lucano, accettando tacitamente la situazione; l’altro brigante, quello iapigio, al posto del passamontagna mette un sorrisone conviviale. Piero attua la sua trasformazione in samurai, e inizia a litigare coi freni della sua Kona, che il ghiaccio rende inservibili; Sandro e Fiorella tentano di mantenere un atteggiamento responsabile e accorto, mentre io inizio a scattare foto qua e là, non fosse altro che per lasciare prove del nostro passaggio in caso di disgrazie.

Il Matese continua a urlare, sullo sfondo. Sembra che il suo massiccio nasconda terribili forze che stanno per scatenarsi, e un senso di apocalisse imminente si preannuncia col suo rumore bianco. La quota sale, il termometro scende.

Poi, tutto a un tratto, il valico. Sì, il valico! Si decide di saltare a piè pari la deviazione per Campitello, che tra l’altro è sterrata e del tutto impraticabile, e si punta diretti al lago del Matese, che è sul versante campano del massiccio. È fatta, pare proprio sia fatta, l’euforia coglie il gruppo. L’ora è accettabile, c’è ancora luce, i chilometri per l’ostello che abbiamo prenotato per la notte non sono molti. E soprattutto, è tutta discesa! Ma la discesa, quando fa freddo, è un’idra a più teste. Il primo, grande cetriolo sono le mani: se fino a poco fa si scaldavano con il dislivello, ora sono facile preda del vento sferzante. E poi, la strada ha effettivamente grandi porzioni ghiacciate. Sembra davvero di stare in The Hateful Eight di Tarantino, e siamo pure otto. L’abbassamento delle difese dato dallo scollinamento rende gli ultimi chilometri ancora più difficoltosi. E poi, quella minacciosa sensazione di disastro imminente si fa più vicina, ora i contorni del monte paiono proprio rombare di nuvole dense e biancastre, come se il Matese li avesse a fatica trattenuti fino ad ora.

Arriviamo sulle sponde del lago a concludere la nostra tappa, in un’ora indefinibile del pomeriggio: se sui nostri cellulari non ci fosse scritto che sono le quattro e mezza, sarebbe difficile credere che esista ancora il Tempo. Ah, a proposito, i cellulari. Nessuno di noi ha campo telefonico. Le acque del lago sono un’unica massa livida, immota, pesante: gli ultimi raggi di sole illuminano le pendici vulcaniche del suo sfondo, mentre alle spalle arriva l’Inevitabile. All’ostello ci attendono due ragazzi per la consegna delle chiavi e qualche informazione veloce. Il locale che ci proteggerà dal freddo stanotte è una di quelle strutture per gruppi di escursionisti o boy scout, decine di letti in camerata, cucina comune a uso libero e coperte di tessuto ruvido e pesante, di quelle che scaldano senza tante formalità. I due ragazzi hanno fretta di ripartire, ci dicono che saremo gli unici nella struttura, che qualche giorno fa ci sono stati degli escursionisti che forse hanno lasciato qualcosa, se vogliamo approfittarne. Aggiungono inoltre che la tempesta ha fatto cadere i pali telefonici e che tutta la vallata del lago è isolata telefonicamente. Anzi se volete scusarci, noi scendiamo al paese prima che la strada sia impraticabile, il peggio si attende per stanotte.

Ci diamo un’occhiata intorno: la provinciale che scorre lungo il lago conta due, massimo tre case di campagna, più altre capanne a punteggiare i boschi dei dintorni. Una delle case vicine è la trattoria “Da Carmela”, che ci è stata consigliata anche dai gestori dell’ostello. Beh, se non altro stasera si mangia bene. Ci organizziamo come se fossimo in un campo base per l’Himalaya, nel frattempo ondate di nevischio iniziano a tormentare la vallata rovesciando anche i pensieri. Siamo al caldo, al sicuro, eppure una serie di agi della quotidianità dati incautamente per scontati si fanno largo tra i nostri pensieri, sotto forma di domande: domani come ce ne andiamo di qua? Come avvertiamo i nostri cari che siamo vivi? E soprattutto, che se magnamo?

L’ultima domanda è quella che ci lascia più tranquilli: prima uno si riempie lo stomaco da Carmela, magari con la generosa cucina locale, poi domani, di buon mattino, capisce se dovrà chiamare il soccorso alpino oppure lasciarsi ibernare in una sazia e rassegnata serenità. Michele va in avanscoperta per prenotare un tavolo, ma incontra un vecchio scostante che lo apostrofa a male parole, dicendo che quella era proprietà privata, che il ristorante era chiuso e che stava andando via per la tempesta. Panico. Che se magnamo?

Mentre le raffiche di vento gridano impietose, frughiamo per la cucina da campo dell’ostello alla ricerca di qualcosa per sfamare le otto bocche che ci portiamo appresso. Ne esce fuori solo un casatiello stantio e dei biscotti, lasciati presumibilmente dall’ultimo gruppo. L’acqua per fortuna è potabile, i fornelli funzionano, ma la situazione non è rosea. Ci guardiamo attorno, e pare che a qualche centinaio di metri più in là ci sia un edificio con una finestra illuminata. Una delegazione di coraggiosi decide di sfidare gli elementi, a piedi, armati solo della luce dei cellulari privi di connessione e dello spirito del pellegrino che mendica asilo. Obiettivi, qualcosa da mangiare, e la possibilità di usare un telefono per non far preoccupare nessuno nelle rispettive case. I corpi dondolano al vento nella notte buia e lacustre. In tre o quattro arriviamo all’edificio, che scopriamo essere un locale di servizio dell’ENEL a controllo della diga all’estremità del lago. Siamo io, Piero, Sandro e Peppe, citofoniamo.

La finestra si apre, e una voce ci chiede cosa vogliamo. Gli spieghiamo, non senza difficoltà e imbarazzo, le nostre necessità. Ci rendiamo conto che la situazione è di per sé grottesca e improbabile. Il tizio ci spiega che non può farci entrare, che il luogo è controllato e c’è un regolamento preciso, poi mosso a compassione concorda di far salire un paio di noi soltanto per le telefonate. Salgono Piero e Giuseppe, secondo un principio di diramazione delle informazioni alle famiglie degli altri per ottimizzare i tempi. Lo spettacolo che gli si para innanzi è il primo segno di scollamento con la realtà, di una caduta libera negli inferi di un’altra dimensione. Un uomo deforme, con una semiparesi al volto, gli apre una porta accennando un sorriso incerto. È il custode della diga, vive lì da solo, è armato e ha “scorte di cibo solo per lui, che devono bastare per tre mesi”, ci spiega, “sennò vi darei qualcosa volentieri“. I due fanno un paio di telefonate, per poi tornare con una busta con un pacco di spaghetti, due spicchi di aglio e una boccettina di olio e sale. “Di più proprio non vi posso dare, mi dispiace“.

Torniamo al campo base grati e increduli sfidando di nuovo l’inferno bianco: poteva andare meglio, ma poteva anche andare molto peggio, ci diciamo. Certo, manca il vino, dobbiamo trovare un modo per passare il tempo prima che giunga il Sonno consolatore. Ma è solo l’inizio, e neanche Stephen King avrebbe mai potuto immaginare la sequenza narrativa delle ore successive. Un’euforia isterica si impossessa di noi, mentre fuori volano tavolini e altri oggetti. Cerchiamo di rendere il fischio della bufera più debole con la musica dei cellulari, oppure organizzando giochi di abilità con le bici indoor: slalom tra le sedie, si gioca a bocce, Michele inizia a disegnare delle carte da gioco con carta e penna. Un misto di sfacelo e celebrazione apotropaica si fa largo possente, come a urlare più forte della tempesta. A un certo punto, inaspettato un rumore rompe i nostri. Una porta sbattuta, con gli spifferi che ne approfittano per farsi largo e riscaldarsi.

Due uomini sbandati, trasandati, irrompono nella sala dell’ostello. Hanno gli occhi liquidi e sono in evidente stato di alterazione. Senza neanche presentarsi, chiedono del Bentelan, iniziano a frugare in molisano nell’armadietto del pronto soccorso, dov’è, è qua, regà ci serve del bentelan. Li guardiamo spiazzati. “No regà, scusate, è che a duecento metri da qua c’è n’amica nostra che je s’è gonfiata la gola, una crisi allergica… Ma proprio non ce l’avete sto Bentelan?”, ripetono tra il disperato e l’aggressivo. “Vabbè, al limite je ficcamo na Bic in gola, così respira… vabbuò, vabbuò, grazie lo stesso regà buona notte…”, e scompaiono inghiottiti dalla notte ventosa, lasciando un enorme punto interrogativo alle spalle, così ingombrante da doverlo spazzare assieme alla neve accumulata sulla soglia. Il macabro siparietto si era concluso con la stessa grottesca rapidità con la quale si era manifestato, comunque prima che potessimo ipotizzare un tentativo di rapina finito male dopo aver considerato il numero degli ospiti, o una sortita di tossici senza costrutto.

L’aria è ancora densa del loro fiato ansante, che la stessa porta si apre sbattendo una seconda volta: stavolta è un uomo paffuto sulla trentina, decisamente innocuo e anzi più confuso di noi. Il vapore del fiato si appanna le lenti da secchione, rendendolo comico e tenero, e accrescendo il senso di disorientamento che già comunicava con la sua mole impacciata. “Mi si è fermato il fuoristrada, avete delle catene da neve? sono bloccato, c’è mia moglie in macchina, vi prego!”, ci dice. Si muove a passi pesanti e incerti, roteando leggermente per l’ansia.
Gli rispondiamo cortesemente che no, ci spiace ma siamo in bici e catene da automobile non ne abbiamo. Ci chiede se ci sia qualcuno nei dintorni: evitiamo di dirgli del Bentelan e delle Bic da cacciare in gola, limitandoci a dire che avevamo provato alla trattoria qui accanto, ma che se ne erano andati già da un po’. Anche lui scompare sconsolato nella notte. Nello scenario di civiltà perduta e costumi sociali abbattuti che solo una tormenta può portare, l’aiuto reciproco diventa fondamentale, e finora l’unico in grado di darne a qualcun altro è stato il mostruoso custode della diga.

Ora il nervosismo è palpabile, neanche le carte da gioco casarecce di Michele riescono a celare il velo di inquietudine della situazione. Per esorcizzarla, ci chiediamo chi sarà la prossima comparsa a fare il suo ingresso dalle tenebre, ma non arriva più nessuno. Il vento danza e celebra l’Assurdo nel più totale isolamento dal mondo e dalle sue passioni, e forse è meglio così – anzi, è sicuramente meglio così.

La mattina del giorno successivo il bianco ha avvolto ogni cosa, implacabile e minaccioso. Il vento ancora non si placa, anzi se possibile è più forte di ieri sera. Ogni cosa ha cambiato luogo e aspetto, rotolando senza posa nel buio, e ora ritroviamo l’Esistenza stessa addossata a testa in giù tra i pali della luce e le sponde del lago, implorando la dignità di essere rimessa al suo posto. Perlomeno abbiamo luce e caffè. Decidiamo di incamminarci non appena le temperature lo consentano, tracciando timide serpentine sulla strada innevata. Incrociamo i tizi del Bentelan della sera prima, ma la luce del giorno non dà loro un’aria più sana come avviene di solito nei film horror, quando tutto torna normale. Ci dicono che hanno risolto la crisi allergica della sedicente amica “co’ na patata“, e ci offrono della grappa. Sono le 11 del mattino. Decliniamo gentilmente. Abbiamo una salita per guadagnare di nuovo un asfalto percorribile senza stare in equilibrio, e la connessione col resto del mondo e le sue notifiche preoccupate.

Lo scollinamento è foriero di liberazione, e di telefonate infauste. La maledizione del gigante innevato è stata superata grazie alla sorellanza e alla fratellanza, mai come oggi forti e solidali. Riguadagniamo le prime discese, la neve si ritira lentamente dalle campagne desolate, e incrociamo un secondo lago dall’aspetto più umano, quello di Gallo. A un certo punto, uno squarcio di sole liberatorio ci accompagna verso il fondo della vallata. Le dita scricchiolano scrollandosi il ghiaccio di dosso, la spina dorsale si stiracchia lungo l’interminabile discesa che ci riporta in Molise.

Birra e arrosticini celebrano il ritorno dagli Inferi, e i cialtroni come tante Euridici dal lieto fine (?) guadagnano ancora una volta la loro temperatura corporea. Il massiccio del Matese è lì alle spalle, che attende il prossimo giro.

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