Tra le sequoie del monte Limbara
L’ultima cosa che si penserebbe pedalando nell’aspro entroterra della Gallura sarebbe quella di imbattersi in un bosco di alberi giganti californiani. Eppure, una quarantina di sequoie è stata trapiantata qui, a fare compagnia ai pini di una delle più alte cime dell’isola – e già parlare di montagna in Sardegna può sembrare strano, dato che il punto più alto della regione non va oltre i 1800 metri.
Parliamo del monte Limbara, semplice stazione sciistica degli olbiesi per alcuni, montagna sacra e misteriosa della Sardegna settentrionale per altri. Carico di una sua aura mistica, un tempo teatro di sequestri e rapimenti – non ultimo quello di Fabrizio de Andrè nel 1979, che fu nascosto dall’Anonima Sequestri nelle grotte di queste alture – il Limbara da sempre cattura l’immaginario dei sardi con le sue forme frastagliate, e il suo ruolo di montagna salvifica e quasi magica è accresciuto dalla ricchezza di fonti di acqua fresca, bene ancor più prezioso in un’isola in cui la siccità rende difficili i raccolti e il suolo è arido. A proposito, i servizi lungo il tracciato non sono moltissimi ed è bene approfittare delle rare oasi di “civiltà”: dopo Olbia, attraversiamo soltanto Priatu e qualche bar alla periferia tra Calangianus e Tempio Pausania, oltre al rifugio sotto la vetta.
Il giro descritto è adatto a ogni bici, ma per il suo carattere impegnativo (134 km per 1380 metri di dislivello) si presta particolarmente alla leggerezza della bici da corsa, ed è ovviamente frazionabile in più giorni, magari pernottando all’Agnata, ex tenuta di De Andrè e oggi agriturismo che rimane proprio ai piedi della scalata. Il tracciato è ad anello e parte e ritorna a Olbia: in meno di 140 chilometri la varietà paesaggistica della Gallura dà il meglio dei suoi panorami, tra millenarie rocce granitiche e uliveti in una perenne lotta col sole. Il rosso della terra, il verde della macchia mediterranea, scuri e intensi entrambi, sembrano scandire questa pedalata su strade che si fanno sempre meno frequentate e più solitarie man mano che ci allontaniamo da Olbia.
Usciamo dalla vivace città di porto per corso Vittorio Veneto, e poi per la Statale Settentrionale Sarda, un nastro di asfalto curvilineo a due corsie abbastanza trafficato, dove tuttavia la linea di mezzeria offre un buon metro di spazio al ciclista, mischiando lievi saliscendi in su e in giù, ottimi per scaldare la gamba e guadagnare un po’ di quota. Al bivio per Priatu, poco prima di Telti, la salita inizia a essere persistente e anche un po’ noiosa, scandita com’è da lunghi rettilinei assolati e un paesaggio che lentamente sostituisce alle distese marine i rilievi dell’interno.
Superata la deviazione per il Monte Pinu il traffico si dirada e inizia il Bello. Il paesino di Priatu è una timida manciata di case in una vallata roboante e al tempo stesso silenziosa, dove la maestà della Sardegna ci avvolge nella sua impassibile silenziosità. Una sorta di western nostrano, fatto di persiane cadenti e bar aperti solo poche ore al giorno, e passiamo oltre sfruttando un andamento in discesa che ci fa allungare il passo in scioltezza avvicinandoci a Calangianus. A differenza di altri due percorsi, uno su strada e l’altro per MTB, non entriamo a Calangianus all’andata, ma proseguiamo verso Tempio Pausania, dove la silhouette del Limbara si mostra minacciosa per la prima volta.
Le strade sotto il paese del sughero sono occupate da una zona industriale abbastanza anonima, fatta di stradoni larghi e vuoti che paiono finiti in fondo a un avvallamento del territorio. Attraversiamo un paio di volte i binari dismessi della vecchia ferrovia che da Tempio Pausania portava a Monti, e prima di entrare nel centro abitato giriamo a sinistra per imboccare, ancora a sinistra, la SS 392 del Lago di Coghinas. Il paesaggio è cambiato decisamente in pochi colpi di pedale.
Alberi più alti e verdeggianti ci danno un’ombra insperata, e la Sardegna di qualche chilometra fa sembra un ricordo lontano. Poco prima che inizi la salita vera e propria, sulla sinistra abbiamo la svolta per lo splendido bosco di Curadoreddu e per le Piscine naturali del Rio Pisciaroni, da cui partono anche vari sentieri escursionistici. Da qui in poi le fonti sono numerose e l’acqua non scarseggia più (ce ne sono almeno altre due lungo la salita, più i punti ristoro).
La salita è qualcosa di inenarrabile, catartico: una serie apparentemente infinita di tornanti ci dischiude un panorama sempre più vertiginoso. Eppure, nonostante superino la trentina, queste svolte strettissime dalla forma quasi intestinale rendono la scalata relativamente breve e agevole – o perlomeno ce la fanno sembrare, visto che in ogni caso la pendenza si aggira tra il 9 e l’11%. Guadagniamo 400 metri di quota nella prima parte a zig-zag, poi superati i 1000 la strada si rilassa e apre un orizzontale frontale sulla cima: siamo arrivati a Vallicciola, unico punto dotato di servizi della zona: un bar rifugio, un’area di sosta camper e dei tavoli da pic-nic, dove è possibile riposare all’ombra di un boschetto di imponenti sequoie. Questo monumentale albero americano è stato infatti trapiantato qui nel secolo scorso, se ne contano 47 esemplari alti tra i 30 e i 40 metri (nel loro ambiente originario arrivano fino a 100).
Siamo a 4 chilometri dalla vetta, solo che per arrivarci ci aspetta un chilometro di discesa che ci fa perdere una cinquantina di metri, per poi fiaccarci con la ripida rampa finale. La cima del Limbara è aperta, lunare, granitica. Arrivare a 1362 metri sul livello del mare su un’isola dove il mare sembra non mollarti mai fa un effetto strano. Le rocce assumono forme ispide e minacciose, al punto che non si è mai sicuri su quale sia il cocuzzolo più alto, complice anche la presenza di antenne e stazioni militari che deturpano la montagna, come purtroppo avviene in fin troppe cime italiane.
Ridiscendere in un soffio i 14 chilometri già affrontati in salita ci dà un’immediata idea di quanto tutto sia relativo, e di come il fresco della montagna ce lo possiamo scordare per il resto del tour. Torniamo sui nostri passi verso Calangianus, per poi chiudere l’anello lungo un’altra strada, quella che passa per Telti, tra ulivi e saliscendi a volte insidiosi, fino a lanciarci in discesa verso Olbia.