Skip to main content

1.1. Cos’è viaggiare in bici

Esistono tanti viaggi quanti viaggiatori: lo spostarsi da un posto all’altro copre una gamma di motivazioni, modalità, sapori, colori e odori che non è possibile racchiudere in una categoria. Viaggiare è un’esperienza estremamente soggettiva, variabile e mutevole anche all’interno di sé stessi: c’è chi viaggia per riposarsi, chi per faticare, chi per ritrovare sé stesso, chi per perdersi. A volte, il mezzo è anche il fine: e se dico che la bicicletta in ambito urbano è innanzitutto (e deve esserlo, altrimenti ci ritroviamo nella sfera delle sottoculture!) un mezzo, un qualcosaperfarqualcosaltro, invece in ambito turistico può essere mezzo e fine al tempo stesso.

Che poi, che rabbia il termine turismo: utilizzarlo mi fa subito venire in mente creme abbronzanti, ombrelloni, gente in coda e alpitour, mentre tour vuol dire semplicemente giro, e nel lessico ciclistico ha già un suo posto di tutto riguardo. Io preferisco – ma questo vale appunto nella mia sfera soggettiva – l’accezione di Grandtour, quello dei romantici inglesi e tedeschi dell’Ottocento, il viaggio di formazione spirituale, educativa ed emotiva, di chi spendeva mesi alla ricerca e alla scoperta di luoghi incontaminati dalla grigia quotidianità.

Ma rimaniamo in ambito soggettivo, appunto: per me viaggiare in bici significa vedere il mondo a venti all’ora, sudarsi la meta, conoscere l’inmezzo prima ancora di tale sudata meta, omaggiare e rispettare una terra, penetrarla, conoscerla in maniera un po’ più approfondita. E poi significa anche pedalare, sfogarsi, raggiungere quell’effetto catartico in cui “ogni pensiero vola” – come recita l’iscrizione su una nota porta a Bomarzo.

Viaggiare in bici vuol dire inoltre privarsi delle comodità quotidiane, per dare loro un nuovo valore. Fare un po’ il selvaggio, giocare all’intothewild (e dico giocare perché non ho certo la pretesa di scelte estreme: mi piace tornare alla rassicurante quotidianità occidentale, ma mi piace anche metterla di continuo in discussione), oltre che purificare mente e corpo, ci permette di ragionare sul ruolo di oggetti e situazioni che si danno sempre più per scontate. Come facevamo prima? Come l’antichi, dice.

1.2. I km tra un posto e l’altro – l’Etica del Pellegrino

Come già accennavo, non conta la meta, ma la strada in mezzo. Certe cose vanno sudate, si tratta di una sorta di tributo ai luoghi attraversati, di uno sposalizio con la Terra. Non puoi dire di essere stato a Parigi davvero, se prima non hai preso la pioggia della Piccardia o costeggiato i canali belgi. Così come Atene e la Grecia intera assumono un altro senso soltanto se abbiamo avuto venti giorni per digerire il sole e i calamari fritti sparsi lungo il percorso tra Epiro e Beozia. E le salite, che dire delle salite? Io le vedo come sfide pacifiche, sfide in cui non c’è un vincitore e uno sconfitto – si tratterebbe di sfidare una montagna, sia mai! Al limite la montagna va onorata e venerata in un’ottica panteista, non certo col passo del colonizzatore armato di fuoristrada.

E il bosco? E le interminabili distese? Tutti quegli elementi naturali (e antropizzati, ovviamente: l’uomo fa parte della natura, con tutti i suoi sbagli e i suoi meriti, e i suoi prodotti vanno apprezzati in quanto tali) diventano non una cornice o uno scenario da occupare e sottomettere, ma un insieme di cui fruire e al quale dare qualcosa, come uno scambio simbiotico.  

Viaggiare in bici ti dischiude un nuovo concetto di viaggio: diventa lineare, scorrevole, fluido. E questo mi ha deformato (o ri-formato, a seconda dei punti di vista) al punto che non riesco più a concepire vacanze statiche, giri nei dintorni con ritorno nello stesso posto-campo base, o pause troppo lunghe. Viaggiare diventa un’urgenza, un virus, una bella malattia che ti spinge a inseguire virtute e canoscenza tipo Odisseo. E se già dieci anni a Ogigia da Calipso erano troppi e toccava rimettersi di nuovo in cammino, io dopo un paio di giorni già ho il prurito.

Oltretutto, va considerata la dimensione scaturita dal viaggiare con le tue cose appresso, nella maggiore autosufficienza possibile, in maniera “onesta” e con la sola forza muscolare applicata a una meccanica tutto sommato rudimentale in confronto ai nostri tempi: è quella che io chiamo l’Etica del Pellegrino.

Scrolliamoci subito di dosso ogni implicazione religiosa del termine pellegrino, e teniamoci invece quella umana e sociale: se ti allontani da casa tua, dal tuo paese, ti poni automaticamente in una condizione di apertura e di vulnerabilità nei confronti del mondo, ne diventi abitante e ospite al tempo stesso. E ci entri in punta di piedi, chiedendo ospitalità o acqua da bere, o rubando la frutta matura dagli alberi che sporgono o le pannocchie nei campi di grano, proprio come un pellegrino sulla strada da Canterbury a Roma. Solo che qui il Papa non c’entra, o meglio il Papa in questo caso è la Natura e la Scoperta del Mondo.

Insomma, viaggiare in bici ti riavvicina a una dimensione umana fatta della semplicità dei rapporti, dello scambio e della comunione con la terra. Ti permette di attaccare bottone a sconosciuti e di offrir loro da bere – sempre che non lo abbiano fatto prima loro – così come di girare senza preoccuparti delle tue condizioni esteriori o di come sei pettinato.

In altre parole, viaggiare in bici conferisce un lasciapassare per l’umanità perduta nei meandri della cosiddetta società civile.

Per usare parole di Battiato,

Nomadi che cercano gli angoli della tranquillità

nelle nebbie del nord e nei tumulti delle civiltà

tra i chiari scuri e la monotonia

dei giorni che passano

camminatore che vai

cercando la pace al crepuscolo

la troverai

alla fine della strada.

Lungo il transito dell’apparente dualità

la pioggia di settembre

risveglia i vuoti della mia stanza

ed i lamenti della solitudine

si prolungano

come uno straniero non sento legami di sentimento.

E me ne andrò

dalle città

nell’attesa del risveglio.

I viandanti vanno in cerca di ospitalità

nei villaggi assolati

e nei bassifondi dell’immensità

e si addormentano sopra i guanciali della terra

forestiero che cerchi la dimensione insondabile.

La troverai, fuori città

alla fine della strada.

(F. Battiato, Nomadi, 1988)

IMG_20161105_010936

Va da sé, spostarsi a pedali permette di scoprire cose non conoscibili in auto, aereo o treno. Se dovessi fare una classifica sulle mie preferenze dei mezzi di trasporto, sarebbe questa:

  1. bici: è semplicemente il punto più alto del progresso umano, dopo si è andati solo peggiorando, tramite la complicazione dell’evoluzione scientifica. Meccanica pura, impiego ragionato della ruota, un gradino sopra il Neanderthal, uno sotto il Cro-Magnon. Consente spostamenti giornalieri con un ragionevole carico tra i 40 e i 120 km giornalieri, a una velocità perfetta per godersi tutto.
  2. piedi: subito sotto, forse anche più nobile per la totale mancanza di filtri tra sé e il resto del mondo (al limite, gli scarponi e un bastone), rispetto alla bici hanno il solo svantaggio di un carico più limitato (sulle spalle dopo un po’ il peso si fa sentire) e di una distanza giornaliera minore (max 30/40 km).
  3. cavallo: mai provato – mi intimorisce un po’ l’idea di un essere animato sotto le chiappe, anche se mi incuriosisce molto l’empatia che si può stabilire tra te e lui, lo metto come terzo honoris causa, sulla fiducia;
  4. nave: o come si diceva un tempo, piroscafo: un ragionevole compromesso per “sudarsi” le distanze marine, avere il tempo necessario di interiorizzare lo spostamento, di metabolizzarlo. E poi, mi piace sempre vedere la terraferma allontanarsi e avvicinarsi, e le manovre di attracco in porto; e amo la sensazione che si prova quando ci si addormenta in mare, il dondolio ti dà l’impressione che qualcosa stia andando avanti senza la tua coscienza, un po’ come quando fischia il vento e tu sei al riparo;
  5. treno: l’estetica dei treni ha sempre avuto un certo fascino, rientrano in un prodotto umano che è stato simbolo del progresso e che è ormai diventato obsoleto – quindi gode di quel fascino un po’ retrò che tra l’altro permette di caricare agevolmente le biciclette, non a caso si trova vicino alla nave nella mia classifica. È un modo ancora onesto di guadagnarsi lo spostamento, sebbene dal cavallo in poi non parliamo più di propulsione muscolare propria;
  6. autobus: versione a gasolio del treno, oltretutto senza rotaie da seguire: se la locomotiva ha la strada segnata, l’autobus può scartare di lato e cadere (semicit.) Questo lo rende leggermente meno affascinante del primo, sebbene sia ancora un mezzo di trasporto collettivo, dove c’è occasione di conoscere e osservare un’umanità varia – prendi Kerouac, più di metà di On the Road è ambientato su queste linee bus di lunga percorrenza sulla Highway 61;
  7. automobile / caravan: garantisce autonomia di spostamento, e fuori dai centri urbani ha ancora un certo fascino: tutto questo, a condizione di prendere stradine secondarie e provinciali – le autostrade sono per chi ha un appuntamento con la Noia.
  8. aereo: quando è più lungo il tempo di fare il check in e il ritiro bagagli del volo stesso, ti rendi conto che qualcosa non va; oltretutto, se prendi un intercontinentale da Roma a Osaka, ciò non aumenterà la tua conoscenza di Turchia, Iran, Russia, Mongolia e Cina – anche se ci passi sopra.

1.3. Esistono tanti viaggi quante sono le persone

Dopo aver espresso queste convinzioni romantiche e un po’ adolescenziali, occorre fare un disclaimer: l’ho già detto prima, viaggiare è soggettivo – anche se molti stili soggettivi di viaggio io li chiamo vacanza, o peggio villeggiatura, sono di tutto rispetto, semplicemente si tratta d’altro.

Personalmente, mi è capitato di fare viaggi di scoperta, di sfida, di penitenza, di sfizio, di socialità goliardica e di esplorazione, il tutto filtrato dal periodo della vita, dal posto, dalla stagione e da innumerevoli variabili congiunturali. Fatto sta che ogni viaggio in bici ha lasciato in me un sapore diverso, unico e irripetibile, dal dolce all’amaro, dall’aspro all’intenso, ma mai sciapo. MI è capitato di viaggiare con gente identica a me e con gente molto diversa, con perfetti sconosciuti diventati poi amici fraterni e con imperfetti conoscenti restati poi tali. La compagnia, il luogo e lo stile di viaggio sono stati variabili costanti, tinte di un acquarello che mischiate hanno reso questo o quel viaggio così o colì. Ma di questo parleremo in dettaglio nel prossimo capitolo.